Vestirsi da uomo per sopravvivere al patriarcato

di Giovanni Piazzese dal Cairo, tratto da Osservatorio Iraq

La storia di Sisa Abo Daooh, che per oltre 40 si è travestita da uomo per poter lavorare e mantenere la famiglia, è un esempio di caparbietà. Ma ricorda anche come in Egitto la disparità di genere sia una piaga ancora attuale

Non capita tutti i giorni di vedere una donna vestita da uomo, ma a Luxor, nell’Alto Egitto, le vicende di Sisa Abo Daooh sono diventate di dominio pubblico dopo che la donna ha ricevuto il riconoscimento come miglior madre di Luxor e un premio in denaro consegnatole dal presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Fin dagli anni Settanta, quando ha perso il marito mentre era al sesto mese di gravidanza, Daooh ha sofferto e lottato per trovare un lavoro e sfamare la figlia.

Analfabeta e vedova, avrebbe potuto risposarsi e cercare la stabilità economica in un altro matrimonio, così come auspicato dai suoi stessi fratelli. La donna, invece, ha deciso di vestire i panni di un uomo e di lavorare in una fabbrica di mattoni.
Per oltre 42 anni Sisa Abo Daooh ha indossato gli abiti tipici degli uomini dell’Alto Egitto, lavorando con loro nel settore delle costruzioni e dell’agricoltura per poi diventare una lustrascarpe quando le forze l’hanno abbandonata. Una vita di sacrifici in cui solo la madre l’ha aiutata prendendosi cura della bambina mentre lei andava a lavorare.
Una scelta coraggiosa, presa in un contesto tradizionalmente conservatore come quello dell’Alto Egitto dove le donne, tanto più se vedove, faticano a trovare un lavoro.

Il ricorso al travestimento in abiti maschili non è una novità dei tempi recenti. Dalla leggenda della papessa Giovanna alle storie di giovani innamorate che durante la prima guerra mondiale si travestivano per raggiungere i propri compagni al fronte, la storia ci ha consegnato innumerevoli esempi di donne che hanno deciso di vestire come un uomo.

Questa pratica, sebbene meno comune, non è nuova neanche in Egitto e in altri paesi del Medio Oriente. Talvolta, il travestimento è stato adottato per semplici ragioni pratiche, come quando, agli inizi del Novecento, il simbolo della canzone egiziana, Umm Kulthum, veniva travestita da bambino per poter cantare, a pagamento, nelle feste di matrimonio.
Altre volte, il travestimento ha acquisito un preciso significato politico, come quando, negli stessi anni, un gruppo di donne libanesi si faceva fotografare con abiti maschili in segno di sfida verso il sistema patriarcale predominante.

Oggi, oltre cent’anni dopo, Sisa Abo Daooh è diventata un esempio di caparbietà ma anche il simbolo di una disparità tra uomo e donna ancora presente nel tessuto sociale egiziano.

Il riconoscimento, ricevuto dal presidente egiziano il 22 marzo scorso, se da un lato premia gli sforzi della donna dall’altro apre un vaso di pandora pieno di problemi irrisolti sul tema delle disparità di genere e sull’uso strumentale di certe notizie.
“Sisi ha premiato una donna che, di fatto, ha violato le regole del sistema patriarcale egiziano che lui stesso rappresenta, ma dubito che da ciò possa scaturire una politica di governo orientata al miglioramento dei diritti delle donne” sostiene Margot Badran, ex docente presso l’Università di Georgetown a Washington e grande esperta di storia del femminismo egiziano.
Secondo Badran, l’immagine positiva che Sisi e i media egiziani hanno dato della donna non è stata seguita da una riflessione critica sui motivi che l’hanno spinta ad abbandonare la sua identità per così tanto tempo.

Un gesto che in tanti definiscono eroico ma che, secondo la docente, dovrebbe far riflettere sui modelli socio-culturali di genere dominanti in Egitto, rimasti ancorati a una visione tradizionale in cui all’uomo spetta il compito di lavorare e mantenere la famiglia mentre le donne accudiscono i figli e si occupano delle faccende domestiche.

Il ruolo delle donne, specialmente nelle aree più conservatrici del paese, viene ridotto a quello di madri e mogli obbedienti, mentre sono gli uomini a dover prendere le decisioni in qualità di capifamiglia.

Nonostante questo ideale contrasti vistosamente con la realtà quotidiana della società egiziana, dove le donne sempre più spesso contribuiscono attivamente al mantenimento della famiglia, esso continua a riflettersi in leggi e pratiche quotidiane che mantengono la disparità di genere a tutti i livelli.
Basti pensare al divieto secondo cui nessuna donna può diventare giudice di una Corte penale perché, secondo la legge, sarebbe più propensa a perdonare gli imputati per via della sua emotività e della sua naturale capacità di empatia.
Oppure si guardi al tasso di disoccupazione, molto più alto tra le donne (24%) che tra gli uomini (9.6%), o alle clamorose disparità salariali fra i due sessi. O ancora, si pensi alla scarsissima partecipazione politica delle donne, ritenute più deboli e, quindi, inadatte a guidare e a proteggere un paese.
Tutti dati che contribuiscono a collocare l’Egitto al 129° posto (su 142 paesi) del Global Gender Gap Report del 2014 pubblicato dal World Economic Forum.
La disparità di genere, però, passa anche attraverso i discorsi che la società promuove. Il lessico paternalistico utilizzato dal presidente al-Sisi durante l’incontro con Sisa Abo Daooh contribuisce a normalizzare una condizione dal potenziale destabilizzante e a riaffermare una specifica percezione del ruolo delle donne in Egitto.

Riducendo Sisa al suo ruolo di madre, sottolineandone lo spirito di sacrificio e l’amore per la famiglia, al-Sisi ha potuto così controllare l’effetto imprevedibile che premiare una donna vissuta come un uomo per oltre 40 anni avrebbe potuto avere sul modello di relazioni di genere dominante in Egitto.

“Siamo di fronte all’ennesima manipolazione del discorso sulle identità di genere e sulla definizione di cosa significhi ‘essere donna’ ed ‘essere uomo’ operata da un regime neo-autoritario ” sostiene Lucia Sorbera, docente di Studi islamici presso l’Università di Sidney.
In un paese come l’Egitto, dove gli omosessuali vengono incarcerati e dove la polizia chiude i bar sospettati di avere questo tipo di clientela, il premio che Sisi ha consegnato a Daooh non è il sintomo di un cambio di rotta verso le questioni di genere, quanto semmai di una normalizzazione di una condizione ambigua protrattasi per decenni.
Volendo premiare un caso anomalo, Sisi ha in realtà colto l’occasione per ribadire i valori tradizionali della famiglia e della società egiziana reinserendolo in una cornice lessicale riconoscibile e “sfruttando i temi di genere per rafforzare la sua legittimità e quella del suo governo” conclude Sorbera.
In una recente intervista alla BBC, Sisa Abo Daooh ha da una parte ribadito l’importanza della sua identità di madre, ma dall’altra ha mostrato come il contesto sociale in cui vive la veda e l’accetti ormai come uomo. La donna si è immedesimata al punto da mantenere gli stessi abiti anche in casa, in una sorta di travestimento permanente dove il confine tra realtà e finzione non è più così netto. “Morirò con la mia scatola di lustrascarpe” ha detto al giornalista.
“Al di là di come Sisa Abo Daooh percepisca la sua identità di genere, rimane il fatto che la donna abbia cominciato a travestirsi per trovare un lavoro e ottenere il rispetto degli altri uomini” sostiene Nihal Saad Zaghloul, cofondatrice del movimento per i diritti delle donne egiziane Basmaa. “Se una donna è costretta a una scelta di questo tipo allora la società che l’accetta ha fallito”.

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