di Carlo Ruggiero
Questa è la storia della mia famiglia. O meglio, è un pezzo di storia di una parte della mia famiglia. E’ la storia di mia madre, dei miei zii e dei miei nonni materni. Ed è una storia di profughi. Persone che sono sfuggite alla guerra e alla violenza. Gente a cui un giorno la Storia (stavolta con la S maiuscola) ha deciso di bussare alla porta di casa. Poi si è portata via la casa. Dopo un po’, s’è portata via anche tutto il resto. Questa è la storia di due adulti, una ragazzina e tre bambini che hanno viaggiato a lungo, che hanno patito la fame e il freddo. Persone che hanno guardato la morte in faccia più volte, che sono state colpite, rinchiuse, umiliate. No, non sono somalo, non sono siriano, non sono afghano. Non sono nemmeno curdo. Non vengo da qualche paese esotico e lontano. Sono un italiano qualsiasi, e lo era anche la mia famiglia. Erano di Coreno Ausonio, un paesino di poche anime arroccato sui monti Aurunci, neanche 150 chilometri a sud di Roma. Per circa settant’anni questi fatti sono rimasti sepolti sotto due dita di polvere, annacquati nel chiacchiericcio quotidiano. Poi ho deciso di tirarli fuori, e per farlo ho iniziato a scavare. Quando si scava, però, di solito si suda, ci si sporca le mani. E c’è sempre il rischio di graffiarsi. La verità è che la Storia (ancora un volta con la S maiuscola) si ripete sempre due volte. La prima come tragedia, la seconda pure.
Leggi le puntate precedenti:
#1 PROFUGHI VERSO IL NORD
#2 CARAMELLE DI GROSSO CALIBRO
#3 SEPOLCRI BIANCHI
L’abbazia domina la vallata, letteralmente. Sta sul cocuzzolo, in alto, da sola. E pare non abbia alcun interesse per Cassino, che intanto sonnecchia placida ai suoi piedi. E’ come se quel suo sguardo sprezzante preferisse rivolgerlo altrove, più in là, verso le montagne. Dalla ferrovia già si vede: bianca, squadrata, con le pareti a piombo come una cittadella militare. Appena messo piede sul binario, l’umidità ti prede alla gola. Qui è sempre così: d’estate non si respira, d’inverno il freddo ti sbriciola le ossa. La stazione è completamente deserta, se non fosse per un gruppo di anziani che si godono il caffè e due chiacchiere dietro alle vetrate del bar. Anche fuori, nel parcheggio, non c’è quasi nessuno. La città è un reticolo squadrato di vie a senso unico e palazzine basse. E’ come se fosse stata ricostruita così di proposito, affinché il monastero fosse visibile da ogni angolo. Per arrivare su, comunque, bisogna salire parecchio. E mentre sali capisci anche perché in tempo di guerra è stata così importante. E’ a soli 520 metri sul livello del mare, ma a ogni tornante il panorama s’apre a dismisura. Si vede tutto da qui: le montagne di fronte, quelle di lato, e sotto la valle del Liri, per intero. Montecassino era e resta un enorme occhio spalancato su questa terra. Domina ogni cosa, più in alto c’è solo il cielo.
A mezza costa, però, uno strano castello fa capolino tra gli alberi. Si chiama Rocca Janula e per secoli è stata la base militare della signoria della Terra di San Benedetto. Oggi non più. Oggi la torre è diroccata, mentre le mura perimetrali sembrano restaurate di fresco. La differenza tra le pietre vecchie e quelle nuove salta subito agli occhi, e stride. Forse perché di colpo ti svela che c’è una crepa, una cicatrice che increspa lo scorrere naturale del tempo. E’ una sensazione che da queste parti si avverte spesso. Sui tratturi di montagna, nei centri storici dei paesi, nelle stradine di campagna, oppure tra i capannoni arrugginiti e gli scheletri delle case mai completate. C’è sempre qualcosa che stona. Qualcosa che tradisce il fatto che ci sono un prima e un dopo ben distinti, e che il prima il più delle volte è preferibile al dopo. Lo stesso vale per l’abbazia. Dopo l’ultima curva ti sbatte subito in faccia la sua storia interrotta. E’ troppo bianca, troppo pulita, c’è troppo marmo a ricoprire ogni singolo mattone. D’estate, poi, diventa quasi accecante.
Il 15 febbraio del 1944, invece, il sole doveva essere piuttosto pallido. L’inverno fino ad allora era stato durissimo, aveva pure nevicato. Con ogni probabilità, anche quella mattina mio nonno era sulla cima di Costa Carosa, insieme agli altri corenesi. Stavano sempre lassù, di vedetta, a controllare i movimenti dei tedeschi giù in paese. Erano mesi ormai che vivevano così, come selvaggina in territorio di caccia. Di giorno nascosti nelle buche, tra tronchi marci e cespugli di ginestra; di notte nelle grotte e nelle caselle. E da Costa Carosa avevano visto gli scontri farsi sempre più aspri. Con i bombardieri alleati che sganciavano bombe come se piovesse e l’artiglieria tedesca che rispondeva colpo su colpo. Le bombe e le granate, tra l’altro, si avvicinavano sempre di più, ora piombavano a pochi metri. Ormai anche i bambini avevano imparato ad ascoltarle. Quando sibilavano non c’era da preoccuparsi più di tanto, perché sarebbero cadute abbastanza lontano. Se soffiavano invece erano guai. Perché arrivavano dritte, e c’era il rischio di rimanerci secchi. In effetti, avevano già fatto parecchi morti, sia in paese che in montagna. E lo stesso valeva per i rastrellamenti tedeschi. Negli ultimi tempi gli americani s’erano avvicinati, e i crucchi s’erano incattiviti non poco. Se non gli si dava subito quello che chiedevano, non ci pensavano due volte a sparare. Così in giro non era rimasta nemmeno una bestia sana, e la fame mordeva le viscere. Eppure quella mattina non era lo stomaco a brontolare. Iniziò come una specie di ronzio di api o di locuste. Aumentò col passare dei minuti, fino a trasformarsi in un rombo basso e pulsante. Dopo un po’, piccoli puntini apparvero alti contro il cielo. In effetti, di uno sciame si trattava, ma non erano api. Erano bombardieri alleati, talmente tanti da oscurare la luce del sole. Qualcuno il giorno prima aveva pure trovato un volantino, uno di quelli che ogni tanto gli americani facevano cadere dal cielo. Su quel pezzo di carta sgualcita s’annunciava in italiano il bombardamento di Montecassino.
Ci avevano creduto in pochi. I più informati andavano dicendo che c’era un accordo scritto tra il Vaticano, i tedeschi e gli americani per non toccare l’abbazia. Eppure la direzione era quella, e poi gli aerei non bombardarono subito le case e la ferrovia come facevano di solito. Andarono dritti per un po’, poi virarono tutti insieme intorno al monte. Fu a quel punto che cominciarono i boati, e la terra tremò come per un terremoto. Anche l’aria limpida di freddo prese a sussultare. Le prime bombe caddero sulla sinistra, lungo il muro perimetrale e nel chiostro. Un’enorme colonna di fumo scuro e denso si alzò in un attimo, per poi adagiarsi piano lungo il pendio. Dopo qualche secondo arrivarono altri aerei e ci furono altre esplosioni. Allora il fumo avvolse la chiesa, poi l’intero fabbricato, e non si vide più nulla. A quel punto Montecassino era già diventato un vulcano in piena eruzione. Ma le esplosioni continuarono per circa due ore, a ondate successive, intervallate da cannoneggiamenti di artiglieria.
Il bombardamento di Montecassino
Quando il fumo si diradò, sul monte non era rimasto che un cumulo di macerie carbonizzate. E la puzza di bruciato si sentiva fin da Costa Carosa. Nonno Gaspare probabilmente rimase lì a guardare per tutto il tempo, incapace di muovere un solo muscolo. Allora non poteva certo saperlo, e di sicuro in quel momento non gli sarebbe importato più di tanto, ma aveva avuto un posto in prima fila in uno dei più grandi spettacoli che la Storia avesse mai offerto. Il bombardamento di Montecassino, nel giro di qualche giorno, fece il giro del mondo. Ne scrissero i giornali americani, inglesi, francesi e tedeschi. Nei dintorni erano già appostate decine di cineoperatori in attesa della grande esibizione. I cinegiornali la trasmisero quasi in tempo reale. Con 250 aerei per circa 600 tonnellate di esplosivo, in effetti, quello era stato il più grande bombardamento diretto verso un unico edificio nella Storia dell’aviazione militare. Anche per questo il generale von Senger und Etterlin, principale responsabile della difesa della Linea Gustav, fece subito firmare un documento all’abate Gregorio Diamare, che chissà come era riuscito a scampare alle bombe. Su quel pezzo di carta si dichiarava chiaro e tondo che all’interno del “sacro recinto” non c’era mai stata traccia di soldati tedeschi. La stessa versione verrà ripetuta a voce davanti a una cinepresa, su richiesta del ministro per la propaganda del Reich: Joseph Goebbels in persona. E infatti le bombe cadute su Montecassino furono molto più utili alla propaganda tedesca che alle Quinta armata alleata. Sul piano strettamente militare cambiò poco o nulla. Ci sarebbero voluti altri tre mesi, un altro spettacolare bombardamento e l’ennesima durissima battaglia per conquistare quell’ammasso di macerie. Solo a metà maggio si vedrà sventolare sulla cima di Montecassino una bandiera. Sarà bianca e rossa, perché all’abbazia arrivarono per primi i polacchi. E’ questo il motivo per cui oggi il cimitero di guerra più vicino è il loro. Sta a un tiro di schioppo dal monastero, in una radura che era stata ribattezzata “la Valle della Morte”, dato che a un certo punto ci si potevano contare più cadaveri che sassi. E’ una specie di semicerchio sormontato da un’enorme croce disegnata col marmo su una collina. Sulle oltre mille lapidi adagiate a terra si alzano altrettante croci. Anche queste sono di marmo, così come i sepolcri, il pavimento, i muretti e le statue che stanno di guardia al cancello. Intorno c’è solo bianco e quiete, interrotti ogni tanto dal frusciare delle bandiere e dal rosso vivo di un mazzo di fiori lasciato su una delle tombe.
Di recente, vicino all’ingresso, hanno anche aperto un museo multimediale gestito da personale polacco. Ci sono dei grandi schermi al plasma, sui quali vengono riprodotte immagini della battaglia con tanto di sottofondo orchestrale da epopea hollywoodiana. Questo è forse il più riuscito dei cimiteri militari sparsi in questa zona. A Caira, una frazione di Cassino, una collinetta è stata interamente dedicata ai 20.000 caduti tedeschi. Poco distante c’è il cimitero del Commonwealth, e a Venafro, una manciata di chilometri verso sud, quello francese. I soldati italiani riposano invece a Mignano Montelungo, mentre gli americani hanno preferito tirare su il proprio camposanto a Nettuno. Ce n’è pure un altro, sempre inglese, ma sta a una trentina di chilometri da qui, a Minturno. Insomma, di cimiteri di guerra da queste ce n’è più di uno, e sono tutti molto simili: imponenti, bianchi, spaziosi, pieni di targhe, statue, croci di pietra e di ferro. Eppure ce ne vorrebbero ancora, visto che qui sono venuti a morire da ogni angolo del mondo. Oltre che inglesi, tedeschi, americani, francesi e polacchi, infatti, i caduti in battaglia sono canadesi, neozelandesi, sudafricani, algerini, indiani, marocchini, tunisini, senegalesi, belgi e nepalesi. Ma anche greci, brasiliani, terranoviani, ceylonesi, siriani, libanesi, jugoslavi, palestinesi, mauriziani, ciprioti, basuti, swazi, beciuani e seychellesi. Qui intorno, poi, c’era pure una divisione “negra” statunitense e un reggimento di “Nisei”, le truppe nippo-americane. Si racconta, poi, che da qualche parte siano morti addirittura due indiani d’America, entrambi della tribù Creek. Il mondo è passato di qui. La guerra, tra questi monti, è stata davvero globale.
A tutto questo, però, mio nonno di sicuro non stava pensando, mentre arrancava in mezzo ai sassi per tornare alla “sua” grotta. D’altronde quella dei civili sulla Linea Gustav è una storia molto diversa dalla gloriosa epopea dei soldati morti a Montecassino. Una storia poco appariscente, probabilmente non così memorabile, senz’alcun dubbio meno conosciuta. Nelle biblioteche scovare un libro che se ne occupi è un’impresa titanica. I migliori restano l’oramai introvabile “Tra due fuochi” di Tommaso Baris e “Guerra totale” di Gabriella Gribaudi, in cui però a farla da padrone sono soprattutto Napoli e la Campania. D’altronde, neanche i giornali e nei cinegiornali dell’epoca furono molto prodighi di notizie su profughi e vittime civili. Evidentemente non era il caso di sottilizzare sugli effetti collaterali della grande avanzata alleata. Di sicuro oggi non ci sono cimiteri monumentali a ricordare quei poveri cristi. I corenesi morti in guerra sono tutti sepolti vicino ai loro cari, in un piccolo camposanto che non ha nulla di speciale. Non ci sono statue, non ci sono targhe, non ci sono colossali croci di pietra bianca. Non c’è nulla di epico o monumentale sotto quei cipressi. Ma di certo neanche a questo stava pensando mio nonno, quella sera d’inverno del ’44. Una volta arrivato alla grotta, davanti alla brace di un timido fuoco, avrebbe raccontato a sua moglie e ai suoi figli cos’era successo all’abbazia. E per l’ennesima volta avrebbe letto nei loro occhi l’angoscia e la paura. Ma forse anche un briciolo di speranza, perché ora gli americani sembravano vicini per davvero. Loro, però, non li avrebbero mai visti arrivare, così come non non avrebbero mai visto quella bandiera bianca e rossa sventolare sulle rovine di Montecassino.
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