Vulcano

Recensione del primo lungometraggio del regista guatemalteco Jayro Bustamante

di Irene Merli

VULCANO (IXCANUL), di Jayro Bustamante, con Marìa Mercedes Coroy, Marìa Telòn, Manuel Antùn, Justo Lorencio, Marvin Coroy. Orso d’Argento alla Berlinale 2015. Nelle sale dall’11 giugno

Maria vive in un villaggio maya, El Patrocinio, alle pendici di un vulcano attivo. Gli abitanti di questo luogo di aspra bellezza lavorano stagionalmente nelle “fincas cafetaleras”, le fattorie del caffè, e campano con fatica, senza acqua corrente né luce elettrica. I suoi genitori le hanno combinato un matrimonio con il capobracciante che lei appena conosce, per mantenere il loro povero campo, ma quello che interessa alla ragazza è il mondo oltre il vulcano, le tradizioni, i bisogni della sua famiglia.

Così Maria si lascia sedurre da un giovane mietitore che vuole scappare negli Stati Uniti. Dopo incontri clandestini e mille promesse di fuggire insieme Pepe però se ne va da solo e la abbandona incinta.

E da qui arrivano le nefaste conseguenze del desiderio di ribellione di Maria. Nella sua antica cultura si crede che una donna in stato interessante possa “disinfestare” un campo dai serpenti velenosi con la sua sola presenza. Ovviamente si tratta di una superstizione, la giovane viene morsa e ricoverata d’urgenza in un ospedale di quel mondo moderno che tanto voleva conoscere, e che invece abuserà di lei e di suo figlio.

In Guatemala, infatti, ogni anno 400 bambini vengono sequestrati alle madri e dati illegalmente in adozione (dati Onu). Il traffico di minori è una realtà drammatica che si svolge in perfetta impunità.

A spiegarlo è il regista, che vive a Parigi ma è guatemalteco e figlio di due medici. Da piccolo attraversava le montagne degli altipiani con la madre, che cercava di convincere le donne maya e meticce (metizo), a vaccinare i loro bambini. Fu lei che scoprì la connivenza di alcuni funzionari sanitari nel sequestro di bambini indios e la sua indignazione è stata il punto di partenza del film.

Bustamante, al suo primo lungometraggio, voleva affrontare il problema dal punto di vista delle madri, vittime di questa aberrazione, e del loro ambiente così distante dalla modernità. E siccome queste donne parlano in k’iche’ e rifiutano di imparare lo spagnolo, “Vulcano” è parlato nella loro antica lingua. Non solo. Il regista ha girato nella “finca cafetalera” dei suoi nonni, vicino al vulcano Pacaya e al lago Atitlan, con soli due attori professionisti (si fa per dire, in Guatemala esiste solo il teatro di strada). Tutto iil cast è maya cakchiquel e Bustamante ha costruito la sceneggiatura dopo aver fatto laboratori nel cuore delle comunità dell’altipiano, attingendo alle loro storie e una testimonianza in particolare.

Ma quella di Bustamante non è solo una forte denuncia sociale. In “Vulcano” c’è anche un gran lavoro di regia, con piani sequenza, campi totali, primissimi piani e inquadrature mobili da regista navigato. Il risultato è visivamente splendido.

Anche se il cielo non si vede mai e del vulcano si scorgono solo le pendici. Questa però è stata una scelta precisa, che il giovane autore spiega così: “La cima piena di fumo, la lava che scende – durante le riprese siamo anche dovuti fuggire per un’eruzione importante- avrebbero tolto la scena a Maria. Non lo volevo. Il vulcano è lei, il magma le cola dentro, l’eruzione è nel suo petto. Ma a differenza del Pacaya Maria non potrà sfogarsi”. Se non con un grido finale, perché troppo grande è l’ingiustizia che il mondo “ moderno” infligge alla minuta fanciulla dalle antiche e calpestate origini…