di Valeria Nicoletti, una collaborazione Q Code / Cultweek
Abolire il carcere è possibile. Lungi dall’essere provocatorio, il titolo del volume edito da Chiarelettere, scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, afferma che l’abolizione del carcere non solo è possibile ma è necessaria, soprattutto “nell’interesse della collettività, di quella maggioranza di persone che pensano di non essere destinate mai a finirci e che, con lo stesso, mai avranno alcun rapporto nel corso della intera esistenza”.
Far sì che ragionare di carcere possa finalmente significare “ragionare di non-carcere”, è un’urgenza testimoniata da dati eloquenti. 2368 persone sono morte nelle carceri italiane negli ultimi quindici anni, quasi 160 ogni anno, almeno un terzo per propria scelta, ricorrendo ai vari strumenti che consentono a un recluso di togliersi la vita: dall’impiccagione alle sbarre della cella all’aspirazione del gas del fornello, mentre più della metà dei detenuti sopporta la reclusione solo grazie all’uso abituale di psicofarmaci.
Questa insopprimibile necessità di fuggire la vita dietro le sbarre è condivisa anche da chi ci lavora: “Il corpo di polizia penitenziaria è quello maggiormente colpito dai suicidi dei propri uomini”, una cifra che ammonta a più di 100 agenti negli ultimi dieci anni. Non solo. A confermare il fallimento totale dell’istituzione carcere è un dato incomprensibilmente sottovalutato: il tasso di recidiva orbita intorno al 70%. Il carcere non solo non è utile, ma consegue il risultato opposto: innalzare il tasso di criminalità, una scuola di specializzazione che affina “le capacità delinquenziali dei detenuti, insediandoli più profondamente nel tessuto della illegalità e negando loro ogni alternativa di vita”.
«Vi è una mentalità condivisa e dominante, che non è solo della pubblica opinione», commenta Luigi Manconi, «ma anche della gran parte dei giuristi, perfino di chi si occupa di giustizia penale, secondo cui l’unica forma di pena non solo applicabile ma immaginabile, sia il carcere». Una specificità tutta italiana, almeno in Europa, perché da noi incorre nella reclusione l’80% dei condannati, contro una percentuale che oscilla tra il 35% e il 55% in Francia, Inghilterra e Germania. «Come se ci fosse stata una progressiva depressione culturale, un impoverimento dell’intelligenza giuridica che si traduce nella rinuncia a elaborare pene diverse dalla cella chiusa”».
Un crollo della razionalità, quasi. «Le ragioni di questo impoverimento sono da ricercarsi nell’elemento emotivo che caratterizza, più o meno consapevolmente, la giustizia italiana», continua Manconi, «come se la legislazione fosse incapace di prescindere da quella parte emotiva e giustizialista che spinge a invocare la cella, la forca». Una dubbia emotività che comincia sin dalle promesse elettorali: «Non è un caso se tra i maggiori argomenti delle campagne si trovi la sicurezza». Eppure basterebbe dare un’occhiata ai dati per capire che si tratta di un falso allarme: l’indice di delittuosità in Italia tra il 2013 e il 2014 è calato del 15% o, altro esempio, nel 2014 sono stati registrati 502 omicidi volontari contro i 1773 di 25 anni fa. «Un buon governatore dovrebbe illustrare questi dati, non instillare psicosi nei cittadini».
Abolire il carcere è soprattutto un libro fisico. Sembra quasi di entrare in una cella, con il rumore di sbarre, il suono sordo del ferro, la prima umiliazione della visita medica, quel tu quasi ostentato, l’odore del corridoio e poi lo spazio della convivenza coatta e il cesso che “no, generalmente non è in fondo a destra”, ma vicino, anche troppo vicino. «Il nostro è necessariamente un libro fisico» spiega Manconi, «se vuole riformarsi, la politica deve ripartire dai corpi fisici, dalle loro occasioni di felicità e di sofferenza». In condizioni di reclusione, «il corpo è impedito, impoverito, annichilito, reificato». «La più dura vessazione dell’anima parte dal corpo del carcerato», aggiunge Anastasia. «Non esiste pensiero che non parta dal corpo del carcerato», persino la questione del sovraffollamento, «affrontata in maniera burocratica, legislativa, è una problematica fisica, che nega l’autonomia del corpo, lo spoglia della sua energia». Questa spoliazione parte dalle responsabilità: «i detenuti sono privati anche della loro età, ridotti a esseri minori e minorati, a cominciare dal vocabolario», commenta Manconi, «sono termini noti a chi ha frequentato il carcere, quelli di spesino, che va a fare la spesa, scopino, addetto alle pulizie, il rapportino, fino a quella forma sublime e fantomatica di una sorta di principio d’autorità che è la domandina, un modulo da cui tutto dipende in carcere, una richiesta dal bambino all’adulto».
Sembra tuttavia che la società sia incapace di pensarsi senza carcere: «Eppure non è sempre esistito», ricorda Stefano Anastasia. «Il carcere è connaturato all’esperienza della modernità, nasce con l’urbanizzazione, come luogo in cui confinare i vagabondi». L’istituzione carceraria è legata a una certa visione dello spazio metropolitano, «è un po’ come la fabbrica relegato fuori dalle porte della città: ora è tempo di dismetterlo, di restituirgli la sua dimensione storica, non contemporanea».
La collocazione delle carceri è un elemento del processo di rimozione, affinché non ci si possa ritrovare nemmeno per sbaglio a chiedersi cosa succede oltre quei cancelli: lì, dice Manconi, «sono reclusi non solo i detenuti, ma i nostri incubi, le tentazioni che noi abbiamo respinto, schierandoci dalla parte di quelli per bene». “La verità è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani non ha nemmeno la più lontana idea di che cosa sia una prigione”, si legge nel libro, “ed è questo il fondamentale motivo che induce quella stessa stragrande maggioranza a reclamare carcere e ancora carcere e sempre più carcere per garantire la propria sicurezza”.
Era il 1949 quando Calamandrei chiamò a raccolta i padri della patria per proporre loro di pronunciarsi sulla condizione carceraria in Italia, in un numero memorabile della rivista Il Ponte, il cui editoriale aveva per titolo “Bisogna aver visto”. Erano i tempi in cui la commissione parlamentare d’indagine sulle carceri nell’Italia repubblicana appena istituita aveva “il vanto di esser composta in gran parte di deputati e di senatori ex reclusi, che quando sarebbero andati a visitare le prigioni vi avrebbero ritrovato la soglia d’ombra del loro dolore e la guida scaltrita della loro consapevolezza”. Oggi perfino chi decide il carcere non ne ha conoscenza: «Durante una lezione alla scuola di magistratura, mi è stato detto che tra gli obiettivi c’è quello di consentire ai magistrati di andare in carcere”, racconta Manconi, «questo significa che chi infligge il carcere non lo conosce».
D’altro canto, le pene alternative restano confinate al loro carattere di straordinarietà. L’unico carcere riformato in Italia, Bollate, costituisce quello che dovrebbe essere ordinario: «è troppo poco, ed è indice che l’istituzione non è riformabile, va semplicemente abolita». Le buone pratiche, aggiunge Anastasia, «non sono in grado di evolvere da misura eccezionale a misura ordinaria». Soprattutto per ragioni economiche: nel 2014, solo il 2,5% delle risorse destinate all’istituzione penale sono state riservate all’esecuzione penale esterna, cioè a tutte le misure non detentive.
Le misure alternative sembrano essere, inoltre, un privilegio per pochi, incastrate in quel meccanismo di premialità che sfigura l’originale intento educativo. «Il carcere oggi è il riflesso del nostro welfare», aggiunge Anastasia, «dialoga solo con i più meritevoli e, tradizionalmente, dietro le sbarre, c’è poco merito», sebbene, se è vero quel che diceva De André, spesso c’è ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Soprattutto tenendo conto della popolazione carceraria, composta per quasi il 90% da stranieri, poveri e tossicodipendenti.
Conclusione: «Bisogna tornare a vedere il carcere, non solo dal punto di vista dei detenuti», evitare la rimozione, a partire da quella architettonica, riportare le celle, chi ci abita, chi ci lavora, sotto gli occhi di tutti, rimetterle in discussione. «Non vogliamo liberarci della necessità del carcere, ma creare le condizioni perché non sia più necessario». A cominciare dalla consapevolezza di chi sta fuori.