Il land grabbing in mostra

Una mostra a Milano racconta l’accaparramento delle terre nel sud del mondo

di Gigliola Foschi

Dopo il Visa pour l’Image di Perpignan, il Brooklyn Photoville Festival e China Pingyao International Photography Festival, il lavoro di Alfredo Bini Land Grabbing or Land to Investors? viene ora presentato a Milano, presso il San Fedele, proprio nel periodo dell’Expo.

Il termine land grabbing (“terra carpita, accaparrata”) è stato introdotto nel 2008 dall’organizzazione non governativa GRAIN (Genetic Resorces Action International) e si riferisce agli accordi aventi a oggetto l’acquisto di milioni di ettari di terreno nei paesi poveri da parte di multinazionali dell’agribusiness, di potenti gruppi finanziari o di agenzie governative straniere, principalmente appartenenti a paesi quali l’Arabia Saudita, la Cina, la Corea del Sud, il Qatar, gli Emirati Arabi.

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Dopo la crisi economica del 2008, l’acquisto della terra si è infatti rivelato una possibilità di investimento sempre più redditizio e sicuro, a causa di molteplici fattori economico finanziari. Tale operazione – che in Africa vede coinvolti paesi come il Madagascar, il Ghana, il Mozambico, il Sudan e l’ Etiopia – non mira certo a “nutrire il pianeta” (come vuole il titolo dell’Expo di Milano) bensì ad arricchire le multinazionali che investono e ad avvantaggiare i paesi ricchi. Il land grabbing si presenta insomma come un’ultima versione del neocolonialismo, che priva della loro terra i pastori e i piccoli coltivatori locali, oltre a comportare l’abbattimento di foreste e il sequestro delle zone di pascolo, l’erosione del suolo, l’accaparramento dell’acqua e la perdita della biodiversità.

Ebbene, la ricerca di Alfredo Bini – che si è concentrata, a titolo d’esempio, sull’Etiopia, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi – ha voluto documentare tale complessa e problematica realtà attraverso un’indagine approfondita, in cui la fotografia, accompagnata da ampi testi esplicativi, si nutre di uno sguardo lucido, proteso a comprendere le cause e lo sviluppo di questo fenomeno.

Le sue immagini, simili a precisi tasselli, mostrano infatti la distruzione in Etiopia delle foreste e dei pascoli, per fare posto a serre e a campi destinati alle palme da olio e alla canna da zucchero, per poi spingersi fino a Dubai e in Arabia Saudita, dove vengono esportati i vegetali prodotti in Etiopia nelle terre divenute proprietà Saudita. Tutto questo in un paese come l’Etiopia dove 6 milioni di abitanti possono sopravvivere alla fame solo grazie agli interventi delle Nazioni Unite.

Ethiopia, Metahara. Metahara Sugar Factory. Lopiso Lagebo (25)  comes from Kambata, a small town 800 km  from Metahar, in the Southern Region.  For Lopiso, work starts at 5 A.M. when the plantation is set on fire, and as soon as it cools down, Lopiso enters the field and starts cutting cane, finishing at 12 or 1 o'clock. He cuts up to 5 tons of sugar cane a day and earns 0,60€. The company recruits the entire work force around his home town, where land shortage drives the workers to emigrate. In order to boost sugar and biofuel production, the management of government-owned Metahara sugar factory, has confiscated over 20 thousand hectares of land inhabited by the Afar people, causing discontent among those who refuse to move their village to make room for the plantations.

Ethiopia, Metahara. Metahara Sugar Factory. Lopiso Lagebo (25) comes from Kambata, a small town 800 km from Metahar, in the Southern Region. For Lopiso, work starts at 5 A.M. when the plantation is set on fire, and as soon as it cools down, Lopiso enters the field and starts cutting cane, finishing at 12 or 1 o’clock. He cuts up to 5 tons of sugar cane a day and earns 0,60€. The company recruits the entire work force around his home town, where land shortage drives the workers to emigrate. In order to boost sugar and biofuel production, the management of government-owned Metahara sugar factory, has confiscated over 20 thousand hectares of land inhabited by the Afar people, causing discontent among those who refuse to move their village to make room for the plantations.

Di fronte a catastrofi e tragedie umanitarie (siccità, guerre, carestie) la fotografia può anche “parlare da sola”, limitandosi a mostrare, in tutto il loro orrore, i risultati drammatici di una crisi in corso, tanto da suscitare immediati sentimenti di compassione e dolore, senza bisogno di ulteriori, argomentati commenti. In un caso invece come quello del land grabbing, la sfida a cui un fotografo si trova di fronte diventa più sottile e più difficile. Qui infatti non ci sono eclatanti eventi tragici da raccontare: il land grabbing è un processo strisciante e pervasivo, dove i danni alle persone e alla terra possono anche mostrarsi con il volto tranquillizzante di una bella serra di fragole perfettamente irrigata da solerti lavoratori.

Ben consapevole di queste difficoltà, Alfredo Bini si è dimostrato all’altezza della sfida. Ha deciso infatti di accompagnare le sue immagini – solo apparentemente “tranquille” – con una serie di precise informazioni che ci permettono di cogliere tutta la gravità del fenomeno in corso. Ed ecco allora che quelle stesse immagini vengono ad acquisire una drammaticità, un’intensità che a prima vista non avremmo attribuito loro.

Leggendo e insieme guardando, ci rendiamo conto infatti che dietro situazioni agresti fintamente “idilliache” si cela invece l’esproprio della terra nei confronti di comunità indifese, in quanto prive dei necessari documenti scritti per attestare il possesso della terra (per molte popolazioni era infatti il diritto consuetudinario a fare legge); si apre la strada a un utilizzo privato dell’acqua che penalizza pesantemente le popolazioni locali; si disgrega l’agricoltura tradizionale, basata sulla diversificazione, per favorire una monocultura pensata solo per l’esportazione. Ecco dunque che cos’è il land grabbing – ci dice Alfredo Bini: una devastante politica alimentare basata sull’accaparramento la terra altrui.

Milano, Spazio Aperto San Fedele, fino a mercoledì 24 giugno dalle ore 16 alle 19