di Eleonora Vio, Costanza Spocci e Giulia Bortoluzzi, da Bajram Curri, Albania, tratto da Nawart
Tenere nelle mani il segreto di un giuramento è qualcosa che va al di là del tempo e dello spazio, se poi viene sussurrato nell’intimità di una notte di temporale coi fulmini, l’ umanità di questo segreto ti penetra nelle ossa. Un giuramento duro e irremovibile, portato avanti con una caparbietà estrema e una forza monacale.
Nessun tentennamento è concesso per le Vergini Giurate dell’Albania, donne diverse tra loro, che per i motivi più disparati hanno deciso di lasciare le loro vesti femminili e indossare un cappello e una cravatta, o un paio di pantaloni larghi da lavoro e una camicia a quadri larga per nascondere il seno.
Siamo a Bajram Curri, un paesino nel distretto di Tropoja, disperso nelle montagne a nord dell’Albania. Con noi è venuto Lali, Diana Rakipi sulla carta d’identità, una burnesha – vergine giurata – nata sulle montagne ma cresciuta sul mare di Durazzo. Un “uomo” di mare, dunque, che scolpisce i tronchi di legno che trova nelle sue passeggiate sul bagnasciuga.
Una persona con uno spiccato senso dell’umorismo, che per l’imbarazzo di dover spiegare ogni volta di essere una donna diventata uomo, non fa altro che scherzare sulla sua doppia identità, dal dilemma del “in quale bagno infilarsi” al ristorante, all’ormai battuta evergreen di lui, “Adamo”, che si fuma “Eva”, la marca delle sue sigarette preferite.
Mentre con gli occhi stropicciati dal sonno osserviamo le mille tonalità di verde che ci regalano le montagne, Lali ci racconta di lui, di quando lavorava per la guardia di finanza albanese. Non possiamo svelarvi qui tutto su Lali. E’ un personaggio chiave del nostro documentario e potrete vederlo in azione a tempo debito. Vi basti sapere che il motivo che spinge una vergine giurata a prendere il suo voto è qualcosa di molto profondo, che non ha solo a che vedere con la sessualità della persona in questione, ma che dipende da scelte personali, famigliari, sociali e geografiche.
La società albanese di quando Lali era giovane era fortemente patriarcale, e lo era ancor di più nel nord da dove proveniva la sua famiglia. Per questo siamo arrivate con lui fino a Bajram Curri a incontrare un’altra burnesha quasi coetanea di Lali e che vive ancora sotto la ferrea legge delle montagne.
Incontriamo Bedrie in un bar. Ha lo sguardo duro, scocciato di vedere gli ennesimi giornalisti che immagina siano lì per chiederle se è lesbica o meno. Con noi e Lali ci sono Arjola, attrice di teatro di Bajram Curri che ha miracolosamente convinto Bedrie ad incontrarci, e Redis, il nostro traduttore, che Lali ha gentilmente soprannominato Bud Spencer per la sua stazza imponente.
Vedere una burnesha di mare e una di montagna sedute fianco a fianco, ci fa subito capire quanto, sebbene accomunate da una stessa scelta di vita, siano persone completamente agli antipodi.
Entrambe ci parlano del Kanun di Leke Dukagjini, il codice consuetudinario che regola la giustizia e la vita sociale del Nord dell’Albania dal XV secolo. Nessuno, né l’impero ottomano, il Re degli albanesi Zog o il regime comunista di Enver Xoxha, è mai riuscito ad abolirne la pratica. Tra le migliaia di prassi previste la più conosciuta è quella della “vendetta”, l’obbligo di riscattare con il sangue un torto subito, uccidendo gli uomini della famiglia o del clan che ha perpetrato il torto fino al terzo grado di parentela.
Da quando Laura Bispuri, però, ha girato il film “La Vergine Giurata”, l’eco dell’articolo del Kanun riguardante le burnesha ha rimbalzato sulle valli e le pareti delle montagne, arrivando fino a noi. Una ragazza o una donna che avesse tutti gli uomini della famiglia impossibilitati a lavorare o ad occuparsi della famiglia, perché morti o rinchiusi in casa a causa di una vendetta, può decidere di spogliarsi degli abiti di donna e indossare quelli da uomo, acquisendo così tutti i diritti che l’essere uomo comporta: ereditarietà, la possibilità di lavorare, avere un’arma ed essere padrone delle proprie decisioni.
Il pegno da pagare è la verginità a vita e il dover comportarsi da “uomo”, con tutte le aspettative sociali che ne conseguono. Una volta intrapresa la via di burnesha, non è più possibile tornare indietro. Fino a qualche tempo fa, per chi retrocedeva, la pena era la morte.
Oggi non è più così, ma il disonore di cambiare idea non è nemmeno contemplato, come ci spiega Bedrie. Che si sappia, solo una burnesha l’ha fatto, emigrando negli Stati Uniti, ma sia Bedrie che Lali, spalleggiandosi tra una birra e l’altra, concordano che se avessero l’occasione di incontrarla le farebbero cambiare idea a suon di schiaffi.
Parliamo anche di sesso, argomento tabù, e della necessità umana di combattere la solitudine con una relazione. Di primo acchito entrambi i personaggi sembrano molto duri e irremovibili ma con il passare delle ore la conversazione si smussa, soprattutto grazie a Lali che ha deciso che vuole farci capire qualcosa di più, un concetto che fatichiamo ad afferrare.
Il Lui e il Lei iniziano a mescolarsi più frequentemente, l’esser uomo non rinnega il fatto di esser donna, l’esaltazione della doppiezza fa strada in maniera contorta e quasi paradossale al tentativo sovraumano di racchiudere in un solo corpo il mito dell’androgino che si completa: le due teste, quattro braccia, quattro gambe e i due organi sessuali che raccontava Aristofane vanno a farsi benedire, e l’essere umano “tondo” tenta tra mille contraddizioni di riunificarsi, completo, in un solo corpo. Quello di una burnesha.