Rotta verso l’Argentina e l’Uruguay, alla fine dell’America Latina e di un lungo viaggio
di Samuel Bregolin
Lasciamo l’isola di Chiloé, la sua natura incontaminata, le balene, i pinguini e i pescatori e riprendiamo la strada verso il nord, col traghetto ritorniamo in terraferma e risaliamo fino a Osorno, dove proseguiamo verso l’Argentina. Dormiamo in spiaggia vicino al lago e l’indomani mattina un grosso fuori strada di un Cow Boy cileno ci lascia di fronte a una chiesa di legno, sul bordo della strada che attraversa i boschi di conifere delle Ande: in mezzo al nulla.
Di qua passano solo rare automobili dirette alla frontiera, nonostante la bellezza del paesaggio i 5 chilometri in salita che siamo obbligati a fare a piedi con gli zaini in spalla ci fanno sudare. A metà strada facciamo sosta in un punto panoramico con vista su alcune piccole cascatelle, dove l’acqua scroscia tra sassi e pietre, qui un solitario cartello giallo con una scritta rossa attira la mia attenzione, in spagnolo dice “apri per sapere chi è il responsabile della preservazione della natura”, apro lo sportellino di legno e all’interno trovo uno specchio riflette che la mia testa spettinata. Il messaggio è chiaro.
Alla dogana veniamo sorpassati da decine e decine di motociclette d’epoca, è una competizione sportiva, ci da un passaggio il meccanico del gruppo col fuoristrada della “800 km classic”. Marco ha la barba nera e folta, beve mate, “Non avrei diritto di farvi salire con me”, ci dice mentre io e Alessia ci stringiamo nel solo sedile libero, “mi hanno chiamato perché avevano bisogno di un meccanico”, ci spiega, “mi pagano 60 dollari al giorno, mentre chi partecipa alla corsa ne paga 3000 per tre giorni, è un’ingiustizia: forse stasera li pianto in asso e me ne torno dalla mia famiglia in campagna”.
Attorno a noi rombano le motociclette, fotografi spuntano un po’ ovunque, un drone segue e filma dall’alto mentre due ragazze in tutina attillata ancheggiano e sorridono filmate dalle telecamere. A dire il vero capisco perché Marco abbia voglia di andarsene. In macchina con lui attraversiamo un paesaggio lunare e insolito, sono le montagne che un anno fa sono state ricoperte dalle ceneri e dalle pietre del vulcano che esplodeva, qui la luce del sole è scomparsa per più giorni.
Oggi la maggior parte degli alberi sono morti: secchi e lisci tronchi bianchi che spuntano tra i cumuli di cenere grigio scuro che ricoprono il suolo, in lontananza le cime più alte sembrano letteralmente spolverate di ceneri vulcaniche.
Siamo in Argentina e notiamo subito la differenza: i fossi a bordo strada sono meno puliti che in Cile e qua e là ci sono delle immondizie abbandonate, la polizia ci dice che è vietato fare fuochi in spiaggia a causa degli incendi conseguenti alla disattenzione. A Bariloche, località turistica d’elite, è vietato dormire in spiaggia con la tenda. Il posto però è meraviglioso, con l’immenso lago che come un fiordo si fa largo tra le insenature delle Ande, le cui grigie punte aguzze sembrano voler perforare il cielo rosa.
Ripartiamo verso il Rio Negro e la Pampa, le due regioni più popolate della Patagonia, troviamo un passaggio in camion, per ore percorriamo la rettilinea striscia di asfalto senza incrociare alcuna traccia di presenza umana. Attorno a noi un’infinita distesa di arbusti mezzi secchi e polvere. A tratti la strada segue il percorso del Rio negro, che si fa largo tra le rocce, in certi punti è così ampio che le sue acque blu spazzate dal vento sembrano quelle di un lago, in altri invece è mezzo secco.
Arriviamo al bacino articifiale di Ramos Mexia, circondato da reti e fili spinati, oltre i quali s’intravvedono delle meravigliose spiaggette di sassi. Non c’è ancora nulla da queste parti eppure al catasto è già tutto registrato. Già immagino le future località turistiche, i ristoranti, le discoteche, gli hotel, i traghetti e i pedalò. Nel mezzo del deserto il frastuono di questa visione mi da mal di testa e torno a concentrarmi per il resto del percorso sull’attività patagonica più diffusa: la caccia al milodonte.
Buenos Aires ce l’avevano presentata come la Napoli del Sud America. “Fate attenzione” ci disse un nipote di emigrati genovesi “uscite con pochi soldi in tasca ed evitate i quartieri periferici.” Quando arriviamo però trovo una città molto più ordinata e silenziosa di Napoli, con un elegante clima di tranquillità. Passiamo la giornata a Palermo, quartiere famoso per i ristoranti italiani, dove finalmente ritrovo il gusto del caffé ristretto e della pizza margherita. Passiamo la serata nel parco davanti alla sinagoga e il Teatro Colon, un posto che mi ricorda la Vucciria di Palermo, anche se qui non c’è tanta gente, solo un gruppo di ragazzi e qualcuno che passeggia col cane.
Poco lontano ci aspettano Bruno e Kevin, che ci ospiteranno per questi giorni a Buenos Aires. Bruno e Kevin sono brasiliani di San Paolo, sono una coppia omosessuale, regolarmente sposata, come testimoniano le carte d’identità che ci mostrano orgogliosamente. Come molti qui in Sud America, sono anche fortemente credenti e cattolici, prima di ogni pasto Bruno si raccoglie in un momento di silenzio e prega, poi lo facciamo tutti assieme unendo le mani.
A loro, che vedono nell’Europa un esempio di rispetto dei diritti umani, è difficile spiegare come da noi il rapporto fra chiesa cattolica e comunità gay siano difficili. “Noi non crediamo che Dio si impicci di queste cose” ci spiega Kevin “Dio è ovunque lo si voglia cercare e ci accetta sempre per quello che siamo.” Con questa affermazione Kevin segna l’uno a zero secco con il quale il Sudamerica porta a casa la partita sulla tolleranza umana.
L’indomani mi lascio trasportare dalla città, cammino fino a Placa Once dove mi ritrovo in una strada di venditori di tessuti, l’atmosfera è febbrile, garzoni con i carrelli corrono da una parte all’altra, si contratta il prezzo della merce, metri di stoffa vengono srotolati per i clienti. I proprietari sono tutti ebrei e indossano il Kippah, il copricapo religioso.
Quando cerco di osservare cosa succede dentro a un magazzino dove due operai stanno spostando grossi rotoli di stoffe colorate da un camion a un altro mi si para di fronte un signore grasso, cellulare all’orecchio, vistoso anello d’oro al dito medio e un incisivo sempre d’oro che brilla, mi sorride con un’espressione di disturbo e mi fa cenno di allontanarmi. Decido di cambiare quartiere e raggiungo il cimitero di Recoleta, dove tra tombe gotiche, capitelli romani, statue di marmo bianco e fastose cappelle delle famiglie più ricche e influenti della città trovo la lapide dedicata a Eva Peron.
La città è tappezzata di cartelloni, murales e scritte che parlano delle Malvinas, altrimenti dette anche Falklands. L’iconografia della questione territoriale è complicatissima, il suo centro è il cambio della guardia al memoriale delle Malvinas, non c’è l’atmosfera del grande evento, signori di mezz’età osservano all’ombra di un pino, quando le guardie repubblicane si avvicinano però scatta un religioso silenzio.
Mentre si svolge il cambio della guardia l’unica persona a muoversi è una signora, che finisce la sua misteriosa preghiera davanti a un mazzo di fiori rossi, sospira e se ne va. Poche centinaia di metri più in là degli adolescenti saltano con gli skates su di una statua a forma di uovo, una guida turistisca spiega al suo gruppo la storia di una chiesa e nei vicoletti dei quartieri popolari circostanti ritrovo decine di poster elettorali per italiani residenti all’estero.
Invece del classico e costoso traghetto che collega Buenos Aires a Montevideo decidiamo di raggiungere l’Uruguay via terra, attraversiamo il ponte internazionale sul Rio Uruguay quando il sole sta già calando. Ci fermiamo poco dopo la frontiera, a Fray Bentos, una ridente cittadina in riva al fiume dove questa sera c’è il concerto dei No te vas a gustar, gruppo etno-rock uruguagio che attira giovani anche dal Brasile e dall’Argentina.
Fray Benson, oltre a conservare la fabbriche inglesi di fine del diciannovesimo secolo e oggi bene protetto UNESCO, è anche uno dei nodi geopolitici più importanti del Mercosur, è qui che la finlandese Botnia ha costruito una grande cartiera, un investimento da 1,1 miliardi di dollari e 10’000 posti di lavoro. Le proteste degli ecologisti vengono prevalentemente dal lato argentino del Rio de la Plata e la questione è stata portata anche sui banchi del tribunale internazionale dell’Aia. La lunga crisi, durata dal 2005 al 2008, ha portato a un indebolimento delle relazioni diplomatiche e commerciali tra Uruguay e Argentina, coinvolgendo indirittamente il resto del Mercosur e indebolendone notevolmente l’idea comunitaria.
Attraversando l’Uruguay non si può non parlare di José Mujeca, il presidente socialista che ha da qualche mese terminato il suo secondo mandato. Famoso per recarsi ai meeting internazionali vestito da contadino, per preferire il suo vecchio maggiolino Wolkwagen alla vettura presidenziale e per aver tagliato del 90% il suo stipendo mensile, “Gli uruguaiani vivono con molto meno del 10% del mio stipendio” fu il suo commento alla stampa, “se lo fanno loro lo posso fare anch’io”. Maria, una giovane laureanda in relazioni internazionali che incontriamo a Fray Benson, però non sembra particolarmente stupida da questo gesto: “Qui da noi è più comune di quanto si pensi che i politici rinuncino a una parte del loro stipendio” poi continua riferendosi alla situazione del Mercosur “Nel 2002 l’Uruguay ha subito l’onda della crisi argentina, da allora abbiamo deciso che dovevamo farcela da soli senza dipendere da economie straniere.
Oggi esportiamo carne, mais, lana e soia in Argentina e Brasile.” Le chiedo della legalizzazione della Marijuana, un’altra legge passata durante la presidenza Mujeca che ha fatto parecchio discutere: “La legge è stata approvata dal parlamento” mi conferma “in teoria l’erba dovrebbe venir distribuita in farmacia, ma questa legge ha dato dei forti scossoni al Mercosur, Brasile e Argentina si sono fermamente opposti. Oggi le cose ristagnano, non credo che la coltivazione industriale della marijuana sarà mai cominciata. Per il momento va tutto a vantaggio dei fumatori, in quanto l’autoproduzione domestica è legale.”
Raggiungiamo Montevideo, la tappa finale della nostra traversata continentale, qui tocchiamo di nuovo le sponde dell’Oceano Atlantico. L’arbergo che prendiamo dista qualche centinaio di metri dal porto eppure la scelta più saggia sarebbe di aspettare un paio di giorni per raggiungerlo: tra le sudate con lo zaino in spalla e l’aria condizionata in macchina, mi sono ammalato. Anche se in stato febbrile non riesco a trattenermi e decido di andare. Soffia un vento freddo, il cielo è ricoperto da grossi nuvoloni grigi, foglie secche e pagine di giornale svolazzando spazzate da folate improvvise. I negozi sono tutti chiusi, oggi è la domenica di Pasqua e la città è semi deserta.
Mi copro il volto con la giacca per ripararmi gli occhi dalla polvere e mi chiedo perché, dopo 11000 chilometri scivolati via come unti dall’olio siano ora gli ultimi cinquecento metri a sembrare così difficili. Arrivo al porto, su di un campo da calcio di terra rossa e ricoperto da polveroni di polvere alcuni ragazzi continuano imperterriti a giocare, un gruppo di ragazze si scatta una foto davanti alle acque grigie dell’oceano, le ondate schiaffeggiano la banchina bagnando la strada e il marciapiedi. Nascosto dall’umidità del piccolo faro s’intravvede solo la piccola luce rossa. Il nostro viaggio è finito.
Dopo 11000 chilometri: abbiamo attraversato 7 paesi, toccato i due oceani, ci siamo arrampicati due volte sulla cordigliera delle Ande per scendere dalla parte opposta. Siamo entrati nelle favelas di Rio de Janeiro, abbiamo intervistato i rangers delle cascate di Iguazu, parlato coi minatori e i cocaleri boliviani, abbiamo fatto autostop coi campesinos, chiacchierato con attivisti politici, giornalisti, sindacalisti, camionisti, gauchos, professori universitari e sopratutto con chi qui in Sudamerica sembra avere le idee più chiare di tutti: la gente comune.
Ci siamo commossi davanti allo spettacolo del salar de Uyuni ricoperto d’acqua, di fronte alla polvere della Patagonia, tra i pellicani e le foche di Coquimbo, attraversato i villaggi di palafitte di Chiloé, dormito ai piedi di un vulcano in eruzione, siamo scesi in miniera, saliti a El Alto per ammirare la Paz stesa sulle Ande, ballato nel clima festivo di Oruro e penso che ogni frammento e ogni centimetro di questo viaggio mi abbiano insegnato qualcosa. Come mi disse un giorno l’amico, camminatore e mezzo filosofo Marco Saverio Loperfido: “Quando ritorno a casa, la prima cosa che faccio, è ripartire”.