di Gabriele Battaglia, da Pechino, tratto da ChinaFiles
Sulla direttrice Tehran-Pechino si svolgono grandi manovre in attesa del 30 giugno, deadline dei colloqui sul programma nucleare iraniano tra Tehran e i 5+1, di cui la Cina fa parte con Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania.
A legare i due Paesi non c’è solo una comune vocazione antimperialista incarnata dai due leader storici – Mao Zedong e Ruhollah Khomeyni – così diversi ideologicamente ma anche così simili nel proprio ruolo storico di emancipazione nazionale contro il colonialismo occidentale; c’è tanta carne al fuoco di strettissima attualità.
Prima di tutto, il petrolio.
Quando, a inizio aprile, un accordo preliminare sul nucleare ha ipotizzato che le sanzioni all’Iran potrebbero essere tolte dopo il 30 giugno, funzionari iraniani sono immediatamente volati in Cina per incontrare dirigenti di Sinopec, il gigante petrolifero cinese, e discutere un contratto di fornitura da far scattare un secondo dopo la fine dell’embargo.
La Cina ha formalmente aderito alle sanzioni contro l’Iran del 2010, il che ha anche creato qualche tensione diplomatica tra i due Paesi. Prima di allora, Tehran era il suo terzo fornitore e ora solo il sesto. Tuttavia, l’Iran esporta già oggi circa 440mila barili di greggio al giorno in Cina, che resta il suo maggiore acquirente e rappresenta circa la metà del suo export.
I cinesi hanno sempre ripagato in merci varie, per l’impossibilità iraniana di operare sul sistema finanziario internazionale e per timore delle banche cinesi di subire ritorsioni negli Usa. Ma un nuovo accordo siglato nei giorni scorso stabilirebbe invece che d’ora in poi Pechino paghi anche in contanti, utilizzando un “Paese terzo” che potrebbe essere il Giappone o la Corea per trasferire il denaro. Non è stato specificato in quale valuta avverrà il commercio, ma non è un segreto che la Cina cerchi di utilizzare sempre più il suo Renminbi negli scambi bilaterali, per dargli statuto internazionale; così come non è un segreto che l’Iran cerchi di diversificare le proprie valute di riserva per emanciparsi da Washington.
L’accordo appare un preliminare per aumentare l’export di petrolio iraniano alla Cina fino a un milione di barili dopo il 30 giugno.
Il possibile impatto del petrolio iraniano su un mercato globale già abbondantemente in oversupply tiene in questi giorni occupati gli analisti. La US Energy Information Administration (EIA) ha sottolineato come l’immissione ex novo di 700mila barili giornalieri di petrolio iraniano – ipotizzata dall’accordo preliminare – sia in totale controtendenza con i tagli alla produzione in corso altrove. I patemi d’animo della EIA riguardano non troppo sorprendentemente il rallentamento del mercato Usa del gas di scisto, fino a un anno fa considerato poco meno che la pietra filosofale per emanciparsi dal greggio delle petro-monarchie.
La politica saudita di abbattimento dei prezzi per presidiare la propria fetta di mercato ha di fatto strangolato molti player Usa dello shale gas, che è più costoso e difficile da produrre, mentre il calo della domanda globale, dovuto anche al rallentamento dell’economia cinese, ha fatto il resto. Ora, se il 30 giugno si raggiungesse un accordo con l’Iran, i prezzi del greggio per il 2016 dovrebbero essere rivisti al ribasso per una cifra compresa tra i 5 e i 15 dollari al barile, secondo il rapporto EIA.
Il nuovo petrolio iraniano diventerebbe così un problema per diversi membri OPEC; tuttavia, per Tehran e per Pechino le quantità supplementari di petrolio iraniano rappresenterebbero uno dei più fulgidi esempi di strategia win-win. Va ricordato per inciso che, con 6,2 milioni di barili al giorno, la Cina è il massimo importatore mondiale di greggio e ha bisogno di diversificare le proprie forniture.
C’è poi la questione geopolitica, che va a braccetto con quella petrolifera.
La Cina sta integrando sempre più l’Iran nelle proprie istituzioni multilaterali. L’ha accettato come membro fondatore della Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) con il beneplacito di Gran Bretagna e Francia e alla faccia degli Usa, secondo l’agenzia Nuova Cina. Pechino spinge verso la normalizzazione dei rapporti tra Iran e Occidente e trova sponda anche tra i tradizionali membri Nato. E a proposito di Alleanza Atlantica, c’è poi la volontà cinese di cooptare Tehran nella Shanghai Cooperation Organization (SCO), la cosiddetta “Nato d’Oriente”.
L’agenzia iraniana Fars sostiene che nel frattempo Iran e Cina stanno discutendo di maggiore cooperazione militare, sia per terra sia per mare. Le rispettive marine si sono già fatte visita a vicenda per costruire i primi collegamenti in vista della Via della Seta marittima, il grande progetto cinese di integrazione tra estremo Oriente ed Europa, di cui l’Iran dovrebbe diventare uno snodo fondamentale perché rappresenta il più affidabile accesso al mare aperto in Medio Oriente.
Navi da guerra della Cina hanno gettato l’ancora in acque iraniane per la prima volta nel settembre del 2014 – nel porto di Bandar Abbas – mentre una flottiglia iraniana si era fatta un giro in acque cinesi già nel 2013. La diplomazia iraniana, dal canto suo, ha più volte sottolineato come sia perfettamente lecito che la marina militare di Pechino scorrazzi per i mari, così come del resto fanno abitualmente gli americani, plaudendo alle recenti manovre congiunte russo-cinesi nel Mar Nero e nel Mediterraneo.
L’Iran è assolutamente un elemento chiave della strategia cinese di integrazione eurasiatica e a Tehran lo sanno.
Così, solleticandone gli appetiti energetici e assecondandola sul piano geostrategico, l’Iran chiede alla Cina di giocare nell’immediato un ruolo più attivo proprio nei colloqui sul nucleare, allo sprint finale. La diplomazia iraniana ha ricordato la “funzione moderatrice” che svolge Pechino nello smorzare i diktat degli americani, che a loro volta devono fare i conti con pesanti pressioni di Israele e dell’Arabia Saudita, una apparentemente inedita lobby anti-iraniana sempre all’opera per boicottare i colloqui tra Tehran e i 5+1.
In prospettiva futura, c’è invece la Via della Seta, c’è l’integrazione eurasiatica. C’è il mondo post-americano.