Due inverni / 4

8/09/1943 – 10/07/1945: racconto reportage a puntate

di Carlo Ruggiero

Questa è la storia della mia famiglia. O meglio, è un pezzo di storia di una parte della mia famiglia. E’ la storia di mia madre, dei miei zii e dei miei nonni materni. Ed è una storia di profughi. Persone che sono sfuggite alla guerra e alla violenza. Gente a cui un giorno la Storia (stavolta con la S maiuscola) ha deciso di bussare alla porta di casa. Poi si è portata via la casa. Dopo un po’, s’è portata via anche tutto il resto. Questa è la storia di due adulti, una ragazzina e tre bambini che hanno viaggiato a lungo, che hanno patito la fame e il freddo. Persone che hanno guardato la morte in faccia più volte, che sono state colpite, rinchiuse, umiliate. No, non sono somalo, non sono siriano, non sono afghano. Non sono nemmeno curdo. Non vengo da qualche paese esotico e lontano. Sono un italiano qualsiasi, e lo era anche la mia famiglia. Erano di Coreno Ausonio, un paesino di poche anime arroccato sui monti Aurunci, neanche 150 chilometri a sud di Roma. Per circa settant’anni questi fatti sono rimasti sepolti sotto due dita di polvere, annacquati nel chiacchiericcio quotidiano. Poi ho deciso di tirarli fuori, e per farlo ho iniziato a scavare. Quando si scava, però, di solito si suda, ci si sporca le mani. E c’è sempre il rischio di graffiarsi. La verità è che la Storia (ancora un volta con la S maiuscola) si ripete sempre due volte. La prima come tragedia, la seconda pure.

Leggi le puntate precedenti:

#1 PROFUGHI VERSO IL NORD
#2 CARAMELLE DI GROSSO CALIBRO
#3 SEPOLCRI BIANCHI

 

#4 LO STESSO UOMO

Di mio nonno ho un solo ricordo. E’ una specie di immagine in movimento, una sequenza di pochi secondi. Probabilmente è il primo ricordo della mia vita, perché quando è morto avevo solo quattro anni.
Sono a casa sua. E’ estate, o forse è primavera inoltrata. Una luce spietata entra dalla finestra, s’infiltra tra le tende, squarcia l’aria pesante del soggiorno.

E’ una luce strana, dorata. In realtà è quasi rossiccia, con delle sfumature innaturali. Forse anche i ricordi si guastano se non vengono conservati con cura. In ogni caso, lui è steso sul divano. Lo stesso divano che c’è ancora oggi. E’ un uomo anziano, un po’ imbolsito, con una coppola in testa e spessi occhiali rettangolari di celluloide. Gli occhi me li ricordo chiari, le sopracciglia bianche e foltissime.

Assomiglia in modo incredibile a Spencer Tracy. Ma a uno Spencer Tracy stropicciato, stanco, come se fosse appena uscito da un turno di 8 ore in catena di montaggio. Ha i piedi poggiati su un cuscino, chiusi dentro mocassini neri, lucidi. Mi vede, sorride, dice qualcosa. Non lo sento, ma mi avvicino lo stesso. Lui si alza con qualche difficoltà.

Ora lo guardo dal basso verso l’alto, mi aggrappo alle pence dei suoi pantaloni scuri e strattono forte. Non è alto, ma da lì sotto mi sembra un gigante. Un gigante allegro. Lui rimesta al lungo con le mani nelle tasche della giacca, poi tira fuori una manciata di caramelle. Chiude la mano e la nasconde dietro la schiena. Poi ci nasconde anche l’altra. Io continuo a strattonarlo. Dopo qualche attimo, mi porge entrambi i pugni. Al primo tentativo sbaglio, al secondo no. Lui ride ancora, io arraffo le caramelle e scappo via.

Poi cala il buio. Tutto quello che so di mio nonno, in realtà, lo devo ai racconti di mia madre. Di lui mi restano solo ricordi di seconda mano. Ma sono comunque pieni zeppi di emozioni. Quando mia madre ne parla, le s’illuminano gli occhi.

– Mamma era un maresciallo, era sempre seria, ci sgridava in continuazione. Invece papà rideva, quanto rideva… Ogni volta che tornava a casa, noi gli saltavamo addosso tutti insieme, lo sommergevamo. E lui era contento. Spesso ci portava la mortadella, e visto che la portava lui era la cosa più buona del mondo. E poi non ti diceva mai di no.

Quando qualcuno ci rimproverava, noi andavamo a cercare riparo tra le sue braccia, che erano sempre spalancate. Le poche foto che lo ritraggono sono gelosamente conservate negli album di famiglia e confermano questa descrizione. Nonno Gaspare appare sempre sereno, allegro, circondato dai figli. Mai un’espressione severa, mai un sorriso anche solo un po’ forzato.

Ci sono pure un paio di filmini Super8, tutti mossi e sfocati. In uno di questi, sta con mia madre, mio padre, Zia Linda e suo marito Giovanni. Sono a Venezia, in piazza San Marco. E sono gli anni settanta, come confermano il profluvio di jeans a zampa, occhiali a goccia e foulard a fiori. La cinepresa nelle mani di mio padre sembra un cavallo imbizzarrito.

Traballa, perde fuoco, scivola, si riprende. Non sta ferma mai. Da quello che si riesce a intuire, però, Nonno se ne sta seduto su un muretto, con le gambe penzoloni e una busta di carta in mano. Ride da dietro i suoi occhiali spessi, mentre lancia manciate di briciole ai piccioni.
– Quella busta piena di pane rappreso se l’era portata dietro per tutto il viaggio. Eravamo andati a trovare i nostri cugini in Svizzera, visto che Linda e Giovanni erano venuti in Italia per l’estate. Così ci siamo fermati a Venezia…


Venezia, Super8 e piccioni

Pare che nonno adorasse i piccioni. Gli ricordavano Milano. E infatti in quel filmino dai colori psichedelici è felice come un bambino, mentre gli svolazzano attorno a decine. Agita le braccia, saluta, continua a sorridere.
E poi c’è l’altra foto. Quella in bianco e nero, quella del 1945 con “Lacchiarella” scritto sul dorso.

Sembra impossibile che quel vecchietto contento e un po’ stralunato seduto sul muretto di Piazza San Marco sia lo stesso uomo magro che se ne sta lì, impacciato, davanti ai merli di un vecchio castello. Sembra impossibile, eppure è così. Anche se in quella foto in bianco e nero il suo sguardo è quasi allucinato. Anche se pare teso come una corda di violino, pronto a darsela a gambe da un momento all’altro.

Anche se ha soltanto trentotto anni ma ne dimostra quasi il doppio. E’ lo stesso uomo, ma consumato da otto mesi vissuti pericolosamente. I primi quattro tra terra umida e foglie marce, oppure rintanato in una buca come un topo. Gli altri quattro in viaggio per un’Italia altrettanto umiliata, e spezzata in due dalla guerra. Tutto cambia l’11 aprile del 1944, due mesi dopo il primo bombardamento di Montecassino.

Proprio in quei giorni Charles de Gaulle viene proclamato comandante di tutte le forze armate francesi, le truppe di Stalin iniziano l’offensiva in Crimea, e gli americani mettono a punto gli ultimi dettagli dello sbarco in Normandia. In Italia, invece, c’è già stata la svolta di Salerno, Vittorio Emanuele lascia il trono a suo figlio Umberto, e di lì a poco i partiti del Cln entreranno nel governo Badoglio.

Mentre una primavera inconsapevole ha già avuto la faccia tosta di sbocciare, la Linea Gustav è ancora là, salda come una diga di cemento. Gli americani fermi oltre il Garigliano, la mia famiglia chiusa in una grotta. Era una bella giornata limpida e il sole aveva cominciato a fare capolino da dietro gli Aurunci, quando i tedeschi fecero irruzione.

Fu un rastrellamento in grande stile, stavolta. I soldati ispezionarono tutte le spelonche e i casolari che butteravano i dintorni di Coreno, uno per uno. Poi, sotto il tiro dei mitra, fecero uscire gli occupanti. Mia nonna, con Zio Giona stretto al petto e le tre figlie aggrappate alla sottana, subì lo stesso trattamento riservato a tutti gli altri: grida, spintoni, sberle, e poi la scalata del ripido tratturo che portava in paese.

Di nuovo in fila indiana, di nuovo a piangere lacrime di paura. Intorno le granate cadevano a grappoli, ma fortunatamente quel giorno nessuno ci lasciò la pelle. Poi vennero rinchiusi dentro la navata di Santa Margherita, in attesa del buio. Erano gli effetti di un decreto firmato dal Duce della Repubblica sociale italiana il 20 novembre 1943.

Il governo repubblichino, “considerata la situazione in cui si trovano i cittadini profughi dalle terre invase dal nemico” e “ritenuto necessario assistere e tutelare i predetti cittadini e tener presenti nello Stato Fascista Repubblicano le aspirazioni, i problemi, gli interessi di quelle popolazioni”, istituiva l’“Ente nazionale per l’assistenza ai profughi e la tutela degli interessi delle province invase”. Tra gli obiettivi del nuovo organismo c’era anche “l’assistenza ai profughi sfollati (…), i quali si trovano in condizioni di disagio in dipendenza delle contingenze belliche”.

Assistenza che “è per quanto possibile totalitaria, e deve esplicarsi oltre che in aiuti materiali ai profughi, nell’impiego dei profughi stessi in attività produttive. L’assistenza generica ha carattere alimentare, di vestiario o di alloggio, sanitaria, di avviamento al lavoro, sociale, legale”. Evidentemente l’assistenza totalitaria prevista per i cittadini dal nuovo stato fascista prevedeva anche la detenzione da parte della Wehrmacht, e la deportazione verso destinazioni sconosciute.

Quando al tramonto mio nonno uscì dal suo nascondiglio in montagna, qualcuno gli raccontò l’accaduto. Lui non ci pensò due volte, e si buttò a capofitto sul tratturo. Arrivato in paese, andò dritto al comando tedesco, mostrando i documenti e chiedendo che fine avesse fatto la sua famiglia.

E’ in questo momento esatto che sulla storia della mia famiglia inizia a incombere minacciosa l’ombra della leggenda. Anche perché i contorni dei fatti, finora così limpidi, cominciano a offuscarsi sempre più nella memoria degli attempati testimoni. Di sicuro c’è solo che i tedeschi, proprio in quei giorni, stavano dando la caccia a un tale di nome Gaspare Biagiotti.

Secondo alcuni un contrabbandiere, uno che faceva la spola da una parte all’altra del fronte trascinandosi dietro bestie da vendere al migliore offerente. Secondo altri, invece, era un vero e proprio sabotatore, una specie di partigiano solitario dedito alla manomissione di linee telefoniche, apparecchi radio, jeep e autocarri militari. Anche stando a questa versione il tizio andava dall’altra parte, ma per informare gli alleati dei movimenti del nemico. Probabilmente la verità sta nel mezzo, ma ciò che veramente importa è che quel tale sui documenti portava lo stesso nome e lo stesso cognome di mio nonno. In realtà, erano anche cugini di secondo grado.

In ogni caso, Gaspare fu ammanettato e interrogato da due ufficiali. Poi, senza andare troppo per il sottile, fu trascinato in strada e messo al muro. Neanche ciò che successe dopo è molto chiaro. Secondo Zia Argentina, fu mio nonno stesso, con la canna del fucile a pochi centimetri dal naso, a convincere il suo boia che non era lui sabotatore che cercavano. “Perché il soldato era polacco, e i polacchi erano cattolici e poveracci come noi. Loro erano meglio dei tedeschi…”.

Secondo altri, invece, fu provvidenziale l’intervento di alcune donne del paese, che testimoniarono a suo favore. Quale che sia la verità, Gaspare ebbe salva la vita. La sua famiglia, però, ancora non lo sapeva. Anzi, la notizia della sua fucilazione passò di bocca in bocca, attraversò Coreno veloce come il vento, e arrivò anche nella chiesetta diroccata. Zia Argentina ha ancora incise nella mente le lacrime versate da sua madre e da Zia Giglia, e le ore che si trascinarono lentissime in quell’androne pieno zeppo di disperati.

Al tramonto, vennero tutti portati fuori per essere caricati su un camion in partenza per chissà dove. In quel preciso istante, però, Gaspare veniva scortato da una prigione all’altra. A questo punto, la storia si confonde ancora, e stavolta s’intreccia con lontane reminiscenze cinematografiche. Così, sembra quasi di ritrovarsi catapultati nel bel mezzo della scena madre di “Roma città aperta” di Rossellini. Quella in cui Pina (Anna Magnani), proprio durante un rastrellamento nazista, rincorre la camionetta che sta portando via il suo promesso sposo Francesco (Francesco Grandjacquet).


Roma città aperta, di Roberto Rossellini

A detta di mia zia, infatti, nonostante il buio Gaspare sentì la voce di sua moglie. Si dimenò, strattonò come un forsennato, riuscì in qualche modo a liberarsi. Poi cominciò a gridare:
-Giovanna, Giovanna!

Mia nonna lo vide. E prese a correre verso di lui, con in mano un lercio fagotto coi pochi stracci del piccolo Giona. A quel punto i soldati che scortavano mio nonno lo riacciuffarono, mentre all’altro lato della piazza un militare balzò giù dal cassone del camion.

Con il calcio del fucile colpì a un fianco Giovanna. Mia nonna crollò a terra mezza svenuta, perse il fagotto e venne trascinata di peso sul cassone. Il camion partì all’istante. Mia zia ne è tuttora convinta: tra il fragore del motore, il rumore del semiasse sull’acciottolato e le grida trafelate dei soldati, nella piazzetta di Coreno si sentì distintamente l’urlo disperato di mio nonno.
– Non vi preoccupate, non importa dove vi porteranno. Io vi troverò! Poi il camion sparì dietro la prima curva.

Qui le loro strade si divisero, ma non per molto. Perché alla fine mio nonno riuscirà a mantenere la sua promessa. Certo, ci vorranno dei mesi, e un misterioso viaggio in un’Italia devastata dalla guerra. Gaspare attraverserà più il fronte, probabilmente incontrerà bande di partigiani, battaglioni di soldati e squadracce di repubblichini. E ne uscirà vivo, dimostrando un coraggio e uno spirito d’iniziativa che probabilmente nessuno prima di allora gli aveva mai attribuito. Sembra impossibile che quel vecchietto un po’ stralunato e con le tasche piene di caramelle sia lo stesso uomo. E’ vero. Pare quasi una leggenda di paese, oppure la scena di un vecchio film in bianco e nero. Sembra impossibile, eppure è così. Quello è lo stesso uomo.