L’hanno chiamato “vertice di emergenza” l’incontro dell’Eurogruppo di oggi 22 giugno a Bruxelles per discutere la situazione della Grecia. “Emergenza”.
di Clara Capelli
Sì, perché mancano pochi giorni alla fine di giugno, data di scadenza sia per la restituzione di 1,5 miliardi al Fondo Monetario Internazionale, sia per le trattative sull’accordo per la concessione di 7,2 miliardi di euro di aiuti. Se l’accordo non si raggiunge, Atene non potrà onorare i suoi impegni finanziari con il Fondo Internazionale e, nei mesi successivi, con i Paesi europei del Fondo salva-Stati. Il tanto temuto default è dietro l’angolo, le lancette dell’orologio scandiscono inesorabilmente il suo approssimarsi, come se si trattasse di un meccanismo esplosivo.
“Emergenza” dunque. Sta arrivando la catastrofe? La Grecia, sfinita da anni di austerità e con un’economia strutturalmente assai debole, avrà molte difficoltà a rimettersi in moto tra i problemi di accesso al circuito del credito legati all’insolvenza e gli effetti di una dracma svalutata: la svalutazione potrà infatti dare impulso alle esportazioni, ma può un Paese nettamente importatore risollevarsi a colpi di turismo ed export di prodotti alimentari? I problemi si porranno anche per l’eurozona, non solo perché i Paesi creditori non vedranno i loro soldi (almeno per un bel po’), ma anche perché questo potrebbe reazioni speculative da parte dei mercati finanziari, tentati dalla possibilità di fare guadagni facili sul fallimento di altri anelli deboli del sistema.
Le conseguenze del default e di un’eventuale uscita della Grecia dall’eurozona – la cosiddetta “Grexit” – hanno animato il dibattito degli ultimi mesi, ma data la mancanza di precedenti storici è difficile pronunciarsi con sicurezza su ciò che accadrà nel breve e nel lungo periodo.
Quello che è certo è che le negoziazioni sul debito greco rischiano di condurre a un fallimento politico per il progetto europeo.
La chiamano “emergenza”, ma sono quattro mesi che i rappresentanti del governo greco discutono con i creditori per la concessione dei 7,2 miliardi. Si tratta di spiccioli se confrontati con l’ammontare del debito greco (oltre 300 miliardi di euro, 177% del PIL). Non sono nemmeno sufficienti per ripagare tutte le rate dell’estate. Atene, infatti, ha un problema di insolvenza, il suo debito è semplicemente troppo elevato e questo era chiaro già con i “salvataggi” (un mix di modeste cancellazioni, prestiti e trasferimenti dei titoli di credito detenuti da banche, specialmente francesi e tedesche, al Fondo salva-Stati e alla BCE) del 2010 e del 2012. Invece sono cinque anni che la Grecia accetta i salassi delle misure di austerità per poter ottenere il denaro sufficiente a poter ripagare i propri debiti, un circolo vizioso che sempre più politici ed economisti – fino ad arrivare addirittura al dipartimento ricerca del Fondo Monetario stesso – giudicano come fallimentare.
Quattro mesi di braccio di ferro per avere 7,2 miliardi senza capitolare di fronte ad altre condizioni che vanno nella direzione dell’aumento dell’IVA, della riduzione delle pensioni (sempre viste come un costo per lo Stato e mai come una fonte di reddito e di domanda), dell’impossibilità di aumentare il salario minimo. No, non si tratta di un’emergenza. È la conseguenza di uno scontro che va avanti da tempo, in cui ognuno dei due fronti confida che l’avversario cederà per primo. Di chi è la colpa? Di questi greci testardi e spendaccioni che non vogliono cedere? Questa è la narrazione più diffusa, rafforzata dai commenti infastiditi di Jeroen Dijsselbloem (“Ormai non c’è più il tempo per versare gli aiuti entro fine giugno”), presidente del Fondo salva-Stati, Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea (“La Grecia ha ingannato i suoi elettori riguardo al debito”), Christine Lagarde (“L’emergenza è ristabilire il dialogo con gli adulti nella stanza”), Direttore del Fondo Monetario Interazionale.
Oltre a una copertura mediatica spesso inclemente, l’atteggiamento talvolta arrogante di Tsipras e soprattutto del Ministro delle Finanze Varoufakis non ha aiutato a sensibilizzare l’opinione pubblica europea alla causa greca, anche considerate le difficoltà tecniche che la piena comprensione della questione pone. I riferimenti alla Germania tra dei due conflitti mondiali vengono visti come eccessivi e demagogici e non poco fastidio ha generato la pubblicazione delle conclusioni dei lavori della Commissione di Verità sul Debito Greco, iniziativa ispirata all’esperienza dell’Ecuador nel 2007. Stando al rapporto, i debiti contratti con la cosiddetta troika (Fondo Monetario, Fondo salva-Stati e Banca Centrale Europea) sono da considerarsi “illegali” perché, senza scendere troppo in dettagli tecnico-teorici, sarebbero la conseguenza di alti tassi di interesse, debiti del settore bancario privato (greco, tedesco, francese, etc.) e squilibri del sistema dell’eurozona dovuti all’assenza di meccanismi fiscali che potessero chiudere in parte la forbice tra i primi e gli ultimi della classe.
Il governo guidato da Tsipras ha saputo porre il debito greco come una questione di politica e teoria economica, insistendo sulla natura sistemica della crisi dell’eurozona – le cui cause, dall’Irlanda al Portogallo, dalla Spagna all’Italia e alla Grecia – sono molto più complesse del semplice settore pubblico parassitario e scialacquatore da modernizzare a colpi di austeri incentivi ed efficienza – e sulla necessità di adottare un nuovo paradigma per leggere i problemi europei, elaborare una nuova strategia di crescita e agire in termini di sistema eurozona, oltre la logica dei bravi zelanti e degli irresponsabili da punire.
Tsipras e Varoufakis, tuttavia, hanno sottovalutato i loro avversari, come dimostra il repentino cambio di agenda rispetto al programma di Tessalonicco: se allora si poneva la questione dell’insolvenza e si insisteva sulla necessità di negoziare una parziale cancellazione del debito, adesso i negoziatori greci agiscono sulla difensiva, stretti in una lotta difficilissima per un pugno di soldi che serviranno solo a rinviare nuovamente i problemi, ma che rischiano di comportare altre penose riforme.
E non è vero che Atene non ha fatto concessioni negli ultimi quattro mesi: dimentichiamo i sacrifici degli anni passati i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti (oppure qualcuno oserebbe dire che questi fallimenti sono dovuti a una dose insufficienti di austeri tagli?), diverse proposte sono state sottoposte ai creditori, ogni volta cedendo su qualche punto. Ma non è mai abbastanza. E allora chi sono i veri testardi? I creditori stanno invece cedendo su qualcosa?
Nel frattempo, i greci continuano a far sentire la loro voce. C’è chi si scaglia contro i creditori; c’è chi critica l’ala pro-eurozona di Syriza perché di fronte all’emorragia di capitali verso l’estero e la corsa agli sportelli che prosegue da giorni ci si chiede se non si fosse dovuto negoziare la Grexit sin da subito, senza nemmeno provare a trattare; c’è chi scende in piazza per chiedere al governo di accettare l’accordo, ritenendolo preferibile rispetto agli “scenari da stalinismo” che molti prospettano di fronte alla possibilità di controlli di capitali, nazionalizzazioni delle banche e razionamenti generalizzati.
Sono giorni difficili per chi sta rischiando così tanto per avere in fondo indietro così poco. Tsipras, consapevole dell’esito tutt’altro che scontato dei negoziati, si è adoperato in questi mesi per trovare altri partner e interlocutori, avvicinandosi alla Russia di Putin. Il 19 giugno è stata firmata un’intesa preliminare per la costruzione del gasdotto Turkish Stream, interamente a capitale russo. Lo stesso giorno la Banca Centrale Europea ha deciso di iniettare ulteriore liquidità alla Grecia attraverso la linea di credito di emergenza (Emergency Liquidity Assistance, ELA). “Abbiamo tutti gli strumenti per gestire la situazione al meglio” ha dichiarato il governatore Mario Draghi, per poi però aggiungere che la liquidità sarà fornita finché i greci “saranno solventi e avranno adeguato collaterale” e che “la situazione è drammatica, ma non è responsabilità degli altri Paesi dell’eurozona o delle istituzioni europee”. La Cancelliera Merkel, da parte sua, ha assicurato che si cercherà di trovare una soluzione, benché di parere molto meno conciliante sia (compre sempre) il suo Ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble. Non è chiaro cosa succederà, perché nessuno vuole perdere, ma nemmeno cedere sulle proprie posizioni.
Se proprio vogliamo chiamarla emergenza, è perché entrambi i fronti hanno sottovalutato la determinazione dell’altro.
Il problema è che gran parte della ragione ce l’ha un gruppo di politici ed economisti senza esperienza di negoziati di un Paese con problemi strutturali di lunga data, entrato nell’eurozona truccando i conti (con la consulenza di Goldman Sachs, non proprio una compagnia che passa inosservata) e che sta rischiando le poche risorse rimaste in Grecia per negoziare il ripagamento del debito e non – come propone e chiede il governo greco – un programma di investimenti che rimetta l’economia greca sul sentiero della crescita.
Qualunque cosa accada oggi, si sarà ancora rimandato il problema, perché comunque le questioni cruciali sono state oscurate dalle tensioni negoziali. È un problema dell’eurozona, spremere la Grecia non libererà nessun incentivo né spirito imprenditoriale sopito, al massimo si favorirà la svendita agli investitori stranieri (come è acceduto al Portogallo) e, cosa più importante, il debito è un problema del debitore e del creditore: se le cose vanno male ci si incontra a metà strada; il debitore è già lì, i creditori dove sono? Ancora fermi al punto di partenza.