di Cora Ranci
Una partita a quattro, in cui ogni parte coinvolta ha molto da perdere e nulla da guadagnare. Ecco perché non conosciamo – ancora – la verità completa su quanto avvenuto la notte di Ustica, 35 anni fa. Quando, come noto, un aereo civile italiano venne abbattuto da un missile sparato da un aereo militare straniero. Detta altrimenti: quando un governo straniero, quasi certamente alleato dell’Italia, diede l’ordine di sparare un missile, rendendosi responsabile – senza però averlo mai ammesso – per la morte di 81 persone innocenti.
Si è da 35 anni alla ricerca di responsabilità eccellenti, dunque, e pertanto di difficilissima individuazione. Ustica rappresenta la frustrante e tuttavia necessaria ricerca della scomoda verità di Stato. Già nel 1989 Giorgio Bocca definì “nobile e anche patetica” la fiducia che i parenti delle vittime di questa strage conservavano nelle alte autorità italiane, mentre le cronache giudiziarie riportavano ogni evidenza dell’esistenza di forti volontà conservative del segreto. Non è forse lo stesso cinismo in cui potremmo imbatterci al bar, quando sfogliando le pagine di un giornale e leggendo una notizia sulla strage di Ustica, un giovane o un anziano potrebbero allo stesso modo commentare “tanto non sapremo mai la verità”?
Non hanno, però, scelta i parenti delle vittime, se non quella di continuare a bussare alle porte delle istituzioni chiedendo verità.
Nel 2011, il Tribunale di Palermo ha emesso una sentenza molto importante con cui i ministeri della Difesa e dei Trasporti sono stati condannati a risarcire i famigliari di Ustica con 100milioni di euro per avergli negato, attraverso omissioni e negligenze, il “diritto alla verità”. In un passaggio di quella sentenza, il giudice ha scritto che i parenti dei morti su quel DC-9 sono stati sottoposti alla “tortura della goccia cinese”, “uno stillicidio di alterazioni di documenti, omissioni, segreti di Stato tali o presunti, menzogne”. In una parola: depistaggi. Lo stato italiano, noi tutti, abbiamo dovuto risarcire queste persone per avergli causato un danno che è andato ben oltre il già tremendo lutto. Un danno “continuato e non estinguibile”.
Oggi, 35° anniversario di quella strage, quella goccia continua a tormentarci. Le domande, sempre le stesse – chi è stato? perché? – continuano a tenere sveglia una memoria che non può smettere di chiedere, di interpellare. Una memoria che non potrà mai rinchiudersi nella commemorazione, ma che resta denuncia civile.
Come noto, conosciamo la dinamica della strage, ma non la nazionalità del colpevole. Molti indizi portano però a delineare un coinvolgimento di almeno tre paesi, oltre l’Italia. La Libia non ha mai collaborato attivamente con la giustizia italiana, ma dalla fine degli anni ’80 Gheddafi ha più volte tuonato contro gli Stati Uniti accusandoli di aver erroneamente abbattuto il DC-9 di Ustica nel tentativo di ordire un attentato contro la sua persona. Dichiarazioni in perfetto stile del colonnello libico, ma mai supportate da elementi concreti. Mai una parola fu poi spesa da Gheddafi per spiegare in modo convincente cosa ci facesse un mig libico schiantato sulle montagne calabresi della Sila e trovato a poca distanza della strage di Ustica (la versione ufficiale: il pilota era pazzo, forse un disertore, o forse ha avuto un malore).
È vero quanto affermava Gheddafi? Non lo sappiamo ma non lo possiamo escludere.
Sicuramente sappiamo che gli Stati Uniti hanno mentito per almeno dieci anni, negando non solo di aver avuto un qualsiasi ruolo nella strage, ma arrivando persino a smentire seccamente la presenza di loro aerei in volo al momento dell’esplosione. Poco dopo la caduta del muro di Berlino, vennero divulgate le registrazioni delle conversazioni telefoniche intercorse tra i controllori di volo in cui vengono spesso citati “Phantom americani”, portaerei e “traffico aereo americano molto intenso”.
Durante gli anni ’90 gli Stati Uniti di Clinton hanno iniziato a collaborare con la giustizia e col governo italiani, mettendo a disposizione informazioni riservate della NATO che hanno permesso di sapere che al momento della strage vi erano ben 21 aerei di diverse nazionalità in volo sui cieli del Tirreno. Due tracce si perdono verso la Corsica, dove c’è una base militare aerea che però, stando a quanto assicurato da Parigi per oltre 30 anni, quella sera aveva già da tempo cessato ogni attività. La notizia clamorosa è arrivata l’anno scorso, quando alcuni avieri in servizio in quella base hanno raccontato ai nostri magistrati che essa era invece aperta e in piena attività volativa la sera della strage. Saperne di più non è stato però possibile, per il momento.
Come possono tre giudici della Procura di Roma, col loro semplice esercizio investigativo, mettere a nudo responsabilità collocate in così alte sfere?
Come da anni ripetono i famigliari delle vittime, hanno bisogno di un forte sostegno governativo perché questa vicenda è tutta politica. Immaginare una trilaterale con Renzi, Hollande e Obama a discutere delle responsabilità per Ustica suona però oggi pura fantapolitica.
Norberto Bobbio credeva che una democrazia, per rimanere tale, non potesse ammettere troppe aree di opacità nel rapporto tra potere politico e cittadini, pena la compromissione della promessa di trasparenza che il sistema democratico dovrebbe mantenere. Lo stesso Bobbio riconosceva che in alcuni casi – e la politica internazionale ricade tra questi – il mantenimento del segreto è legittimo in quanto necessario. Trentacinque anni dopo, però, a quale ragione di stato possiamo ricondurre la continua mancanza di una verità unica e ufficiale?