e la situazione politica post Ben Ali: un’analisi
di Stefano M. Torelli, tratto da Ispi
L’attentato di Sousse, località turistica tra le più rinomate in Tunisia, non giunge purtroppo inaspettato. L’attacco contro il museo del Bardo dello scorso marzo, del resto, era un chiaro segnale di come il Paese sia diventato uno degli obiettivi del terrorismo di matrice islamica, proprio a causa della sua storia di relativo successo rispetto ad altri contesti interessati delle rivolte del 2011.
La stessa Sousse era stata già al centro di un attentato kamikaze nell’ottobre del 2013, ma in quell’occasione era rimasto ucciso solo l’attentatore. Si conferma ancora una volta la volontà dei jihadisti di colpire contemporaneamente due obiettivi: da un lato i turisti occidentali, dall’altro l’economia del paese, che proprio nel turismo ha una delle sue risorse principali.
Questi gli elementi che si possono dedurre dagli attentati di Sousse, che confermano ancora una volta come la Tunisia sia al centro di una vera e propria guerra.
Non si può dire con esattezza chi sia responsabile dell’attentato di oggi, ma di sicuro si può affermare che le precondizioni per un tentativo di destabilizzazione c’erano già tutte: la Tunisia é uno dei paesi nel quale si è più manifestata la radicalizzazione dei giovanissimi che sono disillusi da un sistema politico da cui non si sentono rappresentati. Ma soprattutto, da qualche mese è evidente come anche in Tunisia vi sia una sorta di competizione interna al campo jihadista tra la formazione affiliata ad Aqim, Uqba Ibn Nafi, e altre piccole cellule legate a Jund al-Khilafa, brand dell’IS in Algeria. A ciò si aggiungano le centinaia di giovani che si sono radicalizzati autonomamente e che cercano una via di sfogo al loro estremismo.
Questo è il quadro di un paese che, dal punto di vista politico, sta dando sicuramente segnali di maturità (elezioni democratiche, una nuova Costituzione, un governo di unità nazionale composto dagli islamisti di Ennahda e il blocco secolare di Nidaa Tounes), ma che presenta ancora grossi problemi dal punto di vista socio-economico.
Difficile, infatti, che la piaga del jihadismo venga sradicata se non s’interviene sulle cause profonde del malessere tunisino:
disuguaglianze regionali tra est e ovest (da dove provengono molti jihadisti), riforme del mercato del lavoro e più rappresentatività per le giovani generazioni, a volte troppo marginalizzate dal processo politico. Ciò che accade in Tunisia ci riguarda da vicino e, ancora una volta, occorre riflettere su cosa possano fare i Paesi occidentali per assicurare al Paese una transizione democratica e pacifica, partendo da un sostegno a politiche economiche e sociali di lungo periodo fino alla cooperazione nel campo della sicurezza.
L’ingresso di Tunisi nel novero dei Major non Nato Allies voluto dal presidente statunitense Obama dovrebbe dare alla Tunisia maggiori garanzie in termini di sostegno militare, ma anche i fatti di oggi dimostrano che ciò non basta.
Superare l’impasse politica in cui Tunisi si trova, nonostante gli encomiabili progressi, diventa la chiave di tutto.
Uno degli obiettivi del terrorismo è infatti quello di spingere il paese verso l’autoritarismo di matrice islamica. La sfida è sempre quella di combattere il jihadismo con risultati politici ed economici, piuttosto che solamente con la repressione.
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