Daesh, un anno vissuto pericolosamente

Il 29 giugno 2014, a Mosul, veniva proclamato il califfato.
Dal discorso di al-Baghdadi a oggi molto è accaduto,
con la sensazione che sfugga la reale portata di tutto questo

di Christian Elia

Un anno fa, nella moschea al-Nuri di Mosul, Abu Bakr al-Baghdadi si proclamava califfo. In questi dodici mesi, è stato come se si fosse sempre e comunque avuta una visione parziale di quello che accadeva. Un anno vissuto con una prospettiva limitata, senza una visione globale.

Emergevano, di volta in volta, attori e focus differenti e cangianti. E allora siamo stati assediati a Kobane, rinchiusi a Yarmouk, ora in festa a Tal Abyad, in montagna con gli yazidi. Uno zoom e via di nuovo da un’altra parte. Con un vago senso di nausea e vertigine, come in un ascensore troppo veloce.

Da un altro punto di vista, è stato come se quest’anno fosse passato tra flash accecanti. Che spingono ad abbassare lo sguardo, a chiudere gli occhi. Magari davanti a famiglie intere in una stazione, a taxi che viaggiano di notte verso il Nord Europa, a madri e padri stretti ai loro figli in un treno verso un futuro incerto. Mentre tutta la scena è presa da pigiami arancioni, tute e passamontagna neri, decapitazioni e morte.

Finendo smarriti e confusi, al punto che si perdono le coordinate, e magari un sito archeologico a rischio fa più notizia di mille vittime. Un anno dopo il quadro sembra sempre più complesso, ma è solo sollevando lo sguardo al contesto che si può tentare di immaginare i contorni dell’affresco. Per punti.

Siria. Il contesto del conflitto in Siria è completamente uscito di scena. Di fronte a non meno di 200mila morti e 4 milioni di rifugiati, l’esito del conflitto siriano appare sempre più incerto. L’esercito di Assad e i suoi sodali, come i pasdaran iraniani e gli Hezbollah libanesi, passando per i rubli russi, sembrano in difficoltà, ma non mollano. Anzi. Uno degli effetti della travolgente ascesa mediatica di Daesh è stato quello di rimettere al centro di uno scenario politico Bashar al-Assad.

LA TIMELINE DI MIDDLE EAST EYE DELL’ULTIMO ANNO DI DAESH

Di colpo, tra le difficoltà militari e i raggelanti video di Daesh, è parso come se venisse posta una scelta. Un meccanismo liquido, penetrante, che tendenzialmente e implicitamente verte a una sostanziale riabilitazione del dittatore. In fondo, sembra leggersi tra le righe di tanti editoriali e di molte dichiarazioni di attori politici, Assad è davvero un tipaccio, ma volete mettere con questi barbari?

La prima considerazione, amara, è che se a questo si è ridotto l’arsenale delle opzioni politiche in Medio Oriente, la situazione è drammatica. Parliamo di un regime che ben prima della rivolta del 2011 ha mostrato il suo volto di torturatore, che nel 2011 di fronte ai primi sei mesi della protesta del suo popolo, assolutamente pacifica, non ha esitato un attimo a ordinare il massacro.

Oggi Assad dovrebbe rappresentare la soluzione? E’ già questa una grande sconfitta. E’ quindi allo stesso tempo una vittoria di Daesh? Sarebbe ingenuo pensarlo. Fin dal primo giorno, al gruppo della Siria importa poco. I dirigenti, quelli veri, di Daesh sono l’emanazione dell’establishment sunnita che l’invasione internazionale in Iraq ha liquidato.
Personaggi che, con un grande bagaglio di esperienza di intelligence e di gestione del territorio, hanno usato la Siria, i siriani e il conflitto per farne la rampa di lancio verso l’Iraq. E anche questo è uscito di scena, come se non si volesse guardare a questo genere di operazione.

Ai tempi del conflitto in Iraq nel 2003, bastava passare per Dayr az-Zour, al confine siro-iracheno, per sapere che il regime di Assad proteggeva i gruppi di insorti contro la Coalizione. Finito nell’Asse del Male, temeva di essere il prossimo a cadere dopo Saddam. Quei contatti, quelle relazioni, possono essersi interrotte di colpo? O conveniva sia ai vecchi quadri del partito Ba’ath (dal quale provengono sia il regime degli Assad che quello di Saddam) che al regime di Assad che il conflitto si incanalasse sui binari del confessionalismo?

Ecco che il contesto si allarga. Assad, oggi, può palesarsi come il male minore. Come un campione del laicismo. Dall’altra parte, i laicissimi leader del regime di Saddam, utilizzando il ‘sunnismo’ in chiave bellica, possono marciare di nuovo verso la nascita di quel Sunnistan che si contrapponga all’autonomia curda e all’Iraq post-Saddam che nei fatti è un Paese nell’orbita iraniana.

Le agende, in fondo, coincidono. Daesh, un anno dopo, ha ottenuto il suo risultato. Le frontiere disegnate cento anni fa dalle grandi potenze, in base ai loro interessi economici, si stanno rimodellando su linee di demarcazione etnico – religiose. Curdi, sunniti, sciiti. Anche se pure queste servono solo a definire equilibri di potere ed economici.
Tutti i frammenti di questa storia sono ancora sul tavolo. Tentare uno sguardo d’insieme è difficile, ma necessario. Senza tifare per nessuno, ma tenendo fermo lo sguardo su coloro che, ancora una volta, sono schiacciati in questo meccanismo: i civili inermi. Non conta se sono sunniti, sciiti, curdi, yazidi o caldei. Li stanno usando, li stanno uccidendo. E non riusciamo neanche a guardarli in faccia.