C’è un paradosso nella vittoria del movimento omosessuale di fronte alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Gay e lesbiche conquistano il matrimonio nel momento in cui il matrimonio diventa un’istituzione sempre meno centrale nella società americana
Dagli Stati Uniti, Roberto Festa
I millennials, la generazione che ha rappresentato il cuore pulsante della richiesta dei diritti gay, è anche il gruppo demografico che si allontana sempre di più dall’istituzione “matrimonio”. Non è un caso che la sentenza, storica, a favore del “gay marriage” sia stata scritta da Anthony Kennedy, un giudice cattolico e conservatore.
Ma andiamo per ordine. Venerdì 26 giugno verrà ricordato come una data storica per il movimento gay e lesbico americano. Decenni di lotte, speranze, cadute e nuove battaglie si conclude con il voto di cinque giudici che riconoscono il diritto degli omosessuali a godere degli stessi diritti di tutti gli americani eterosessuali. La sentenza è scritta in un linguaggio alto ed emozionante: gay e lesbiche possono, attraverso il matrimonio, fuggire solitudine ed esclusione; il matrimonio è un modo per conquistare vera dignità e libertà.
Il moto di gioia dei gruppi omosessuali è proporzionale alla difficoltà della conquista. Tra il primo gruppo gay americano, nel 1924, e il giugno 2015, ci sono decenni di esclusione; ci sono le leggi che punivano la sodomia; ci sono i licenziamenti dai posti di lavoro; ci sono decine di vittime della violenza omofobica, la sessualità confinata nei cessi pubblici, le irruzioni della polizia nei bar omosessuali, l’esclusione dall’esercito, l’epidemia dell’AIDS che fa degli omosessuali gli “untori”, la vergogna e la sofferenza di chi ha passato la vita a nascondersi. Per questo il senso di aver fatto “Storia” è così vasto e profondo.
Anche la reazione di larghi settori dell’opinione pubblica americana è generalmente favorevole. La Casa Bianca viene illuminata con i colori della bandiera arcobaleno. Facebook dà ai propri utenti la possibilità di virare la foto del profilo con gli stessi colori. La bandiera gay viene esibita in centinaia di negozi, caffè, centri commerciali. Tutto il week-end successivo alla sentenza è dominato da feste a tema gay. Tranne alcuni (non tutti) candidati repubblicani alla presidenza, e qualche isola conservatrice del Sud, la reazione della società americana è dunque positiva. La decisione dei giudici non fa altro che sancire una realtà largamente accettata dagli americani.
C’è un altro dato che non va sottovalutato. L’esplosione di gioia sui matrimoni gay arriva al termine di una settimana che può essere davvero definita un “trionfo liberal”.
Sulla scia del massacro di Charleston, la bandiera degli Stati della Confederazione diventa un simbolo di razzismo e discriminazione. Schiere di politici conservatori e repubblicani, che sino a oggi l’avevano difesa come memoria e storia degli Stati del Sud, chiedono ora che venga rimossa e “collocata là dove appartiene: in un museo”. Poco dopo arriva l’altra sentenza storica della Corte, quella che riafferma la riforma sanitaria di Barack Obama. Quindi, è la volta del gay marriage. Nel giro di qualche giorno i temi della race, dell’orientamento sessuale, dell’intervento dello Stato nella vita e nella salute dei cittadini, vengono risolti con una decisa virata progressista. Le “guerre culturali” che per decenni hanno segnato il profondo della cultura americana sembrano finire nel senso auspicato dalla sinistra americana.
Tutto questo è vero, tranne che non dà un quadro davvero completo di quanto successo – anzitutto in tema di diritti gay. Per iniziare, va ricordata una cosa: e cioè come la scelta di fare del matrimonio una battaglia del movimento omosessuale sia stata avversata e combattuta, prima di tutto all’interno dei gruppi omosessuali americani. “Il matrimonio non è una mia priorità, ma capisco che per altri lo sia”, ha detto in un’intervista Edmund White, il romanziere e uno dei grandi alfieri della cultura gay americana. La scelta di fare del matrimonio una delle rivendicazioni omosessuali è stata contestata da chi, nel movimento, ha sempre considerato il matrimonio come intimamente oppressivo, patriarcale, normativo. Alla fine i sostenitori del “gay marriage” hanno vinto, ma la vittoria, appunto, mette da parte il carattere più eversivo, non convenzionale, eterodosso che la cultura gay ha avuto nel passato, e soprattutto negli anni Sessanta e Settanta.
C’è poi un altro elemento importante. Guardiamo chi ha scritto, e letto dagli scranni della Corte Suprema, la sentenza sui matrimoni gay.
E’ Anthony Kennedy, il giudice che tradizionalmente fa da ago della bilancia tra liberal e conservatori. Kennedy è un ex-chierichetto, un cattolico convinto, nominato alla Corte da Ronald Reagan perché garanzia di fedeltà ai principi moderati e conservatori. La sua sentenza è tutta permeata da questa cultura moderata e cattolica. Non c’è “unione più profonda del matrimonio”, scrive Kennedy. Il matrimonio offre “una nuova dimensione di libertà” ed è “essenziale alla dignità umana”, aggiunge il giudice, noto per l’adesione a una giurisprudenza che non sia pura applicazione della legge ma che consideri l’effetto della legge sulla vita degli uomini.
Qui sta dunque il primo paradosso della decisione della Corte Suprema. La vittoria dei gruppi omosessuali – tradizionalmente i nemici più radicali di conservatori e religiosi – avviene grazie a un giudice che è espressione della cultura cattolica americana. Il trionfo dei diritti gay e lesbici si realizza in nome dell’adesione a principi e valori che sono quelli della politica e della cultura conservatrice. Anche perché – e siamo al secondo paradosso – non è del tutto vero, come scrive il giudice Kennedy, che il matrimonio è “una nuova dimensione di libertà”. Per molti eterosessuali americani, la “nuova dimensione di libertà” non è “nel matrimonio”, ma è di “dal matrimonio”.
A dare un’occhiata ai numeri, il matrimonio è un’istituzione sempre più in crisi nella società americana. Dati Gallup di quest’anno mostrano che il divorzio è considerato un’opzione moralmente valida dal 71% degli americani (erano il 59% nel 2001); il sesso pre-matrimoniale è lecito per il 68%; il 61% pensa che non ci sia alcun problema ad avere un figlio senza essere sposati. Le generazioni più giovani, dicono tutte le statistiche, mostrano di considerare il matrimonio un’opzione come un’altra. Non più l’istituzione “necessaria alla salvaguardia dei figli e delle famiglie”, come scrive il giudice Kennedy, ma una possibilità come un’altra, che non preclude il fatto di fare sesso, avere dei figli, formare una famiglia.
Ecco dunque che non sono “le sorti magnifiche e progressive” a portare alla vittoria dei diritti gay. E’ un processo molto più complesso, sfumato, un percorso storico in cui i gruppi gay hanno rinunciato, per essere socialmente accettabili, a una parte delle loro richieste, della loro forza rivoluzionaria; e la società “normale”, eterosessuale, patriarcale ha compiuto la strada opposta, ha abbandonato parte delle proprie norme e proibizioni e tradizioni. In altre parole, sui matrimoni gay si realizza una sorta di compromesso che mette almeno parzialmente la parola fine alle guerre culturali iniziate negli anni Sessanta. I radicali si sono fatti meno radicali, i conservatori meno conservatori. Ciò non toglie che in tema di libertà, e di diritti, ci sia molto da festeggiare nelle parole uscite dall’aula della Corte Suprema il 26 giugno 2015.