Sicurezza e percezione

Una mappa del pianeta che indica le aree considerate a rischio secondo la Farnesina e una riflessione
per cercare di capire come stanno davvero le cose

di Davide Maggiore

Il meccanismo è semplice, quattro colori a indicare il grado di sicurezza dei paesi. La risposta sembra esserlo altrettanto: fuori dall’Occidente nessuna salvezza, o quasi. A suggerirlo è la mappa che, all’indomani degli attacchi del 26 giugno in Francia, Tunisia e Kuwait (più quello non molto citato in Somalia) il Corriere della Sera ha pubblicato sotto il titolo “Il Viminale teme l’effetto emulazione”. E riferendo i timori per i turisti di un altro ministero, quello degli Esteri.

Timori che crescono tanto più quanto più ci si allontana dall’Europa occidentale e dal Nordamerica, con poche eccezioni.

Tra i paesi per cui viene data “luce verde”, infatti, oltre all’Australia e a buona parte dell’Argentina ci sono anche la Russia e importanti fette della Cina e della Turchia. Plausibile, in effetti, visto che i turisti tendono a non occuparsi di questioni come i diritti umani o l’opposizione politica. Discorso opposto, invece, se si va a sud e particolarmente in Africa: dei 54 stati del continente (più il “territorio non autonomo” – così lo definisce l’Onu – del Sahara Occidentale) nessuno ottiene la patente di area “senza allarmi specifici”.

La gradazione di colore, e di pericolo, parte dal rosso (“sconsigliato andare”) di aree come Libia, Somalia, nord della Nigeria e del Mali, est della Repubblica Democratica del Congo, oltre che di zone dell’Egitto, dell’Algeria e del Sudan.

Poi ci sono l’arancione (“evitare se non indispensabile”), come nel nord del Kenya, e il giallo. Colore, quest’ultimo, dalla distribuzione quantomeno curiosa.

Succede, infatti, che il grado di rischio di aree come i Balcani, il Kurdistan turco, l’Arabia Saudita, la Corea del Nord (tutti contesti in cui, avverte la carta, bisogna “viaggiare con cautela”), sia condiviso da paesi come lo Zambia, che in oltre 50 anni di libertà non ha vissuto mai una guerra né un golpe. Situazione identica per il Botswana, indipendente quasi dallo stesso numero di anni e altrettanto pacifico.

Giallo-cautela è anche il colore del Senegal, paese al 94% musulmano che celebra come padre della patria un cristiano, il primo presidente, Léopold Sédar Senghor. E lo stesso vale per il Ghana, il Benin, il Sudafrica. Come se la criminalità comune contro cui il sito della Farnesina (sui cui comunicati sembra basarsi la mappa) mette in guardia, fosse l’anticamera inevitabile della guerra civile o della violenza terroristica.

Ragionamento che, al contrario, non  vale per luoghi come le banlieues parigine, o le periferie degradate di qualsiasi grande città. La ragione di questa differenza andrebbe chiesta a chi quella mappa l’ha disegnata, ma un dubbio lo si può esprimere anche senza conoscerla.

Il “semaforo mondiale” pubblicato dal Corriere, in realtà, sembra essere poco più di un riflesso della percezione che in Italia si ha comunemente di varie parti del mondo.

E l’Africa, come spesso accade, resta il “cuore di tenebra” senza speranza del globo. Un’immagine che, però, ha conseguenze non da poco per tutti, compreso chi, a sud del Mediterraneo, non scenderà mai. Ma magari, spaventato da quella sequenza di rosso giallo e arancio, vorrà trasformare quel “semaforo” in un muro fatto di diffidenze e sospetti, o forse anche di blocchi navali. Cioè il muro, su entrambi i lati, di una prigione.