di Samuel Bregolin
Chi di noi potrebbe immaginarsi oggi Orson Welles recitare in Bosnia Erzegovina? Chi Richard Burton interpretare il ruolo del Maresciallo Tito o vedere Sofia Loren e Carlo Ponti in vacanza sulle isole Brioni in compagnia di un dittatore socialista? Chi crederebbe che produzioni cinematografiche dai costi improponibili per Hollywood siano messe in piedi a Jablanica, tra Sarajevo e Mostar? Chi ricorda che Picasso disegnò la locandina di un film sui partigiani jugoslavi? A chi di noi non suonerebbe strano sapere che mezza Hollywood si sta sbracciando pur di essere presente al Pula film festival? Eppure è tutto vero!
Questa è la storia di un paese che non esiste più, tranne che nei film. Comincia così il documentario di Mila Turajlic sul mondo della cinematografia jugoslava, Cinema Komunisto è del 2010 ma è uscito in Italia solo da poche settimane. Il cinema fu una delle armi di propaganda più forti del maresciallo Tito, che rileggeva personalmente ogni sceneggiatura, che sorvegliava i set e partecipava alle riprese. Il cinema fu anche voce di dissenso, la Crni talas, l’onda nera degli anni settanta, fu uno strumento culturale e di trasformazione delle masse, le produzioni americane furono una buona occasione per legarsi all’economia statunitense e per alcuni semplicemente per trovare un lavoro.
Di questo paese scomparso che rivive solo nei film rimane ancora un ultimo e abbandonato brandello: gli studios cinematografici di Belgrado, gli Avala Film: la Cinecittà dei Balcani.
Agli Avala Film, a Kostnujak, sobborgo di Belgrado, trovo due guardiani pigri e svogliati, col cappello sulla fronte, che m’impediscono l’ingresso. Metto insieme le poche parole di serbo-croato che conosco mescolandole all’inglese, uno dei due si alza e va verso il telefono, finge di chiamare qualcuno ma ormai so come funziona da queste parti: tentenna in attesa che io gli dia una mancia per poter entrare. Resisto e continuo a parlare in inglese, gli mostro la macchina fotografica. Capisce che non otterrà nulla e con un ampio gesto della mano mi manda vagamente a quel paese mentre con l’altra mi fa cenno che il cancello è aperto e basta spingere per entrare, poi torna a dormire sulla sedia accanto al suo collega.
La città del cinema è composta da una decina di teatri, uno è diventato un’industria di conserve sottovuoto, alcuni sono abbandonati mentre altri sono stati venduti a compagnie cinematografiche private o utilizzati dalla televisione serba. La Filmski grad dove furono girati centinaia di film è chiusa da una recinzione metallica, vietato l’ingresso mi dicono, nello studio numero uno qui accanto sta lavorando una televisione di Belgrado: c’è troppa confusione perché io possa scavalcare inosservato, ma ho fortuna. Un camion carico di sabbia esce dalla Filmski Grad, gli operai mi scrutano dall’alto in basso, il vecchio guardiano invece chissà perché non mi vede e lascia il portone aperto mentre il camion si allontana, scivolo dentro.
Alla Filmski Grad c’è un silenzio quasi surreale, dalla vicina tangenziale riecheggia il rumore delle macchine che sfrecciano veloci sulle pozzanghere, tutt’attorno la calma del bosco. All’interno della cittadella del cinema e degli studi di posa alcuni operai smontano la facciata di un vecchio edificio, il rumore del martello sui chiodi rimbomba tutt’intorno: sono strutture di legno, ricoperte da cartongesso e vernice. Da anni le pareti marciscono gonfie d’acqua e le colonne si sbriciolano, ricoperte da erbacce, in attesa di crollare al suolo. Eppure tra le sue strade si respira ancora l’atmosfera magica del cinema, sembra di sentir ancora i registi impartire ordini, le comparse prepararsi, i direttori della fotografia controllare le luci, le grandi star attendere sedute all’ombra o firmando autografi agli ammiratori curiosi venuti sul set. Ogni angolo, ogni scorcio, regala atmosfere d’altri tempi. Ogni edificio, ogni finestra, ogni scalinata sembra ancora intriso da quello spirito meticcio di amministrazione socialista e libero mercato che ne fece le fortuna. L’incuria di trent’anni di abbandono non ha rovinato il fascino dei riflettori.
La storia della Filmski Grad è gloriosa, così come lo fu quella della Jugoslavia. Fin dal 1946 Tito volle costruire una città del cinema a Belgrado, dove iniziarono le prime produzioni con il sostegno sovietico, diventate indipendenti dal 1948, alla rottura tra il Maresciallo e Stalin. La seconda grande svolta è nel 1962 quando arriva il nuovo direttore Ratko Dražević, ex partigiano e membro dei servizi segreti jugoslavi, che riesce a portare alla Filmski Grad le grandi produzioni americane di Hollywood.
«The long ship», produzione del 1963 della Columbia Pictures diventerà il primo colosso cinematografico girato in un paese socialista. Seguono «Gengis Khan» e «Marco Polo» con Omar Sharif. È l’inizio dell’epoca d’oro per il cinema jugoslavo, che riuscirà a portare alla Filmski Grad attori del calibro di Orson Welles, Yul Brynner, Anthony Queen, Kirk Douglas, Gina Lollobrigida e Sofia Loren. Più di 600 tra film e documentari vennero prodotti qui e tra questi alcuni vinsero premi importanti come il Festival di Cannes, il Golden Globe di Los Angeles e l’Orsa d’oro di Berlino.
Il successo della Filmski Grad purtroppo è destinato a durare poco: la morte di Tito, le guerre, la dissoluzione della Jugoslavia e la Avala Film viene svenduta alla Jugoeksport, società d’import/export che prese in gestione l’insieme dei 105 dipendenti, i magazzini, i teatri di posa, la cittadella e soprattutto i 33 ettari di terreno edificabili. Jugoeksport fallì subito dopo ed è oggi in bancarotta: è una delle tante storie di corruzione legate alla privatizzazione di beni pubblici in Serbia. Il patrimonio culturale cinematografico jugoslavo verrà inevitabilmente dato in pasto ai costruttori edili, appena la metropoli di Belgrado sarà abbastanza grande per costruire un quartiere residenziale a Kostnujak. «L’ultimo tentativo di salvare la Filmski Grad è stato fatto nel 2003 dal governo di Zoran Đinđić» testimonia al quotidiano B92 Goran Marković, regista e professore all’università di Belgrado, «che cercò di riacquistare gli studios, ma non fece in tempo perché venne assassinato».
Negli ultimi anni i teatri di posa sono stati utilizzati saltuariamente solo dall’italiana Film87, compagnia di produzione televisiva. «Venni qui per la prima volta nel 1976 per girare Quo Vadis» ricorda Carlo Ponti in un’intervista di qualche anno fa «rimasi affascinato dall’organizzazione e dalla bravura dei tecnici e delle comparse», nascosta sotto a un telone di plastica c’è ancora una macchina della polizia italiana, che partecipò a una serie con Fiorello e Lando Buzzanca. Il vento s’insinua freddo tra le strutture in legno, la pioggia ha permeato per anni le assi gonfiandole d’acqua, le facciate in cartongesso cadono al suolo, tutto è in stato di abbandono e incuria, le erbacce ricoprono i teatri di posa, agli angoli sono ammassate immondizie e calcinacci. Le pareti sono pericolanti e potrebbero cadere al suolo da un momento all’altro.
«Le nuove generazioni non conoscono il passato e la storia della Jugoslavia, sono stupiti dal vedere che venivano qui personalità del calibro di Alfred Hitchcock e Alain Delon» racconta la regista di Cinema Komunisto, Mila Turajlic «La Jugoslavia era implicata nella scena cinematografica mondiale e la nostra società sarà prima o poi obbligata a costruire un dibattito sulla nostra memoria collettiva ufficiale».
Nel frattempo i negativi originali dei film dell’epoca marciscono dentro a un magazzino assieme alle attrezzature, ai costumi, agli oggetti di scena, agli allestimenti e alla magia di quegli anni. La Filmski Grad, reduce della storia cinematografica jugoslava attende solo di scomparire inghiottita nel dimenticatoio, così come il paese che la costruì.
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