FREEDHOME: AL LAVORO IN CARCERE

“Abbiamo tutti piena fiducia nell’utilità sociale del lavoro all’interno del carcere e abbiamo deciso di unirci per crescere, espanderci e avere un’identità più chiara”. A parlare sono i portavoce di Freedhome, marchio che raccoglie una decina di cooperative operanti all’interno del carcere, da Siracusa a Venezia. Q Code Mag li ha incontrati in occasione di Milano Fair City

di Valeria Nicoletti

Il marchio Freedhome è alto, ben evidente, rosso e bianco, al centro del padiglione dedicato all’economia solidale in occasione di Milano Fair City, la fiera del commercio equo, allestita a maggio alla Fabbrica del Vapore. Da vicino, profumo di caffè, di biscotti, di mandorle. Ad accogliermi è Paola Maisto, 37 anni, da Scampia, presidente e fondatrice della cooperativa Lazzarelle, impegnata nella torrefazione del caffè presso il carcere femminile di Pozzuoli, unico istituto penitenziario per donne in tutta la Campania, che accoglie tutte le detenute, in attesa di giudizio e definitive.

Lazzarelle nasce nel 2010, da un’idea di Paola e della sua socia, Imma Carpiniello: “abbiamo cominciato a lavorare con Pozzuoli e ci siamo ritrovate più vicine all’ambito della detenzione femminile, forse in quanto donne, e abbiamo deciso di restarci”, racconta Paola, “prima svolgevamo attività di mediazione culturale, poi le detenute ci hanno chiesto di poter lavorare, ci siamo rese conto dell’importanza di avviare dei progetti professionali in questo istituto, scarsamente considerato, anche in quanto realtà del Sud”, i finanziamenti pubblici annuali per il carcere di Pozzuoli non superano i 5000 euro all’anno.

“Napoli è la patria del caffè”, continua Paola, “e allora abbiamo deciso di dedicarci alla torrefazione”, ma non solo per motivi geografici, “vogliamo sfatare un luogo comune: quello della torrefazione come lavoro prettamente maschile, esistono poche donne che si occupano di caffè, persino le parole sono un riflesso di questo pregiudizio, chi fa il caffè è il torrefattore, la torrefattrice è solo una macchina”.

Nell’arco di 5 anni sono state impiegate una cinquantina di detenute, mentre il lavoro oggi si divide tra le due socie e tre detenute assunte: “partiamo dalla miscela, ottenuta dalla fusione di cinque tipi di caffè, provenienti dal commercio equo e solidale, lo tostiamo, lo lasciamo nei silos per una ventina di giorni, poi lo maciniamo e lo imbustiamo”.

La cooperativa confeziona tè, caffè e tisane biologiche, tutti prodotti distribuiti da botteghe del commercio equo, gruppi d’acquisto solidali e alcuni bar. “Abbiamo imparato insieme a fare il caffè, con un mastro torrefattore, mentre la miscela è stata scelta con le prime detenute che hanno lavorato con noi”.
Al momento dell’assunzione, precisa Paola, si cerca di prediligere chi non ha reddito, chi ha figli, chi ha bisogno di soldi per non pesare ulteriormente sulla famiglia: “la maggior parte della popolazione carceraria è composta da spacciatrici, che vengono da Scampia”, racconta Paola, “sono nata e cresciuta a Scampia anche io ma sono figlia di insegnanti, ho avuto una possibilità in più rispetto alle donne che ritrovo dietro le sbarre, c’è una differenza culturale, il lavoro serve anche a colmare questo scarto, a dare loro un’altra opportunità”.

È lo stesso proposito che ritroviamo da Banda Biscotti, cooperativa operante presso la scuola di polizia penitenziaria di Verbania dal 2006: “Freedhome nasce dalla volontà di creare un nucleo di cooperative, accomunate dall’idea che lavorare in carcere sia un valore aggiunto, che la pena detentiva non sia il tempo dell’ozio ma possa dare competenze da spendere all’esterno”, e oltre a una filosofia comune, c’è anche la stessa metodologia: “tutte le cooperative assumono i detenuti con un regolare contratto, ci sembra utile per veicolare anche e soprattutto all’interno del carcere il valore del lavoro, responsabilizzare il detenuto, combattere sul campo il meccanismo di premialità, il lavoro non è un premio ma un diritto”.

Accanto al banchetto di Banda Biscotti, Imma, di Lazzarelle, ci racconta il suo punto di vista: “creare lavoro all’interno del carcere è prioritario, per spezzare il tempo della detenzione, per favorire il reinserimento, abbattere la recidiva, riuscire a dare soldi all’esterno, trasformare i detenuti da peso a nuova risorsa sociale”. Lottare contro l’idea che il carcere sia condannato a essere una porta girevole: “la porta girevole, la recidiva, esiste perché niente cambia tra l’entrata e l’uscita di un detenuto, con la scarcerazione ci si ritrova nello stesso contesto, con gli stessi pochi strumenti, anzi in un contesto ancora peggiore, si diventa ex-detenuti, colpevoli e discriminati”.

pippo

Pippo Pisano

Tra le mandorle e gli agrumi, c’è Pippo Pisano, 52 anni, della cooperativa L’Arcolaio, nata nel 2003 e operante nella casa circondariale di Siracusa. Sul suo banchetto, paste di mandorla, amaretti, meringhe, pesto alle mandorle: “la nostra intenzione è valorizzare i prodotti tipici e le eccellenze agro-alimentari siciliane, lavorare anche per lo sviluppo locale”, racconta, “ci sentiamo per la nostra piccola parte degli attori della crescita del territorio e vogliamo contribuire anche all’economia dei produttori locali”. L’ultima produzione è, infatti, una gustosa infornata di biscotti a base di mandorle siracusane.

“Da qualche mese abbiamo avviato un progetto fuori dal carcere, per l’inserimento lavorativo di ragazzi svantaggiati, provenienti dall’area penale, ma non solo”, continua, “abbiamo ripreso un terreno incolto, con la coltivazione di erbe aromatiche spontanee tipiche del territorio, vorremmo coltivare queste erbe, essiccarle, frantumarle, impacchettarle e avviare un’altra linea di produzione”. Su quasi 500 detenuti, la cooperativa ne impiega attualmente cinque, “negli ultimi mesi dell’anno, la produzione e la commercializzazione aumentano quindi ne impieghiamo fino a 10”, continua Pippo, “i nostri prodotti si trovano soprattutto nel centro-nord Italia, nei negozi biologici, botteghe del commercio equo e i gruppi d’acquisto solidale”.

Pippo si è avvicinato al carcere dopo un’esperienza di cooperazione internazionale: “io stesso avevo un’idea della vita dietro le sbarre completamente diversa prima di lavorarci”, racconta, “credo davvero che i detenuti siano gli ultimi tra gli ultimi e il pensiero di chi sta fuori non riesce quasi mai a fare un salto oltre il muro di cinta, a pensare che dentro la vita scorre quotidianamente, si dorme, si mangia, ci si lava, è un mondo di cui volontariamente forse la società si dimentica, di cui è più facile ignorare i diritti”. Pippo è il primo ad aggiungere una sfumatura in più, un altro punto di vista al racconto della vita da operatore: “non ho incontrato solo poveri, spacciatori, ma anche persone dall’esistenza ordinaria, non particolarmente sfortunata, che davanti a un accadimento improvviso hanno avuto una reazione inaspettata, non hanno avuto forse gli strumenti culturali, emotivi per rispondere cercando mediazioni o possibilità di uscire dal conflitto diversamente”, continua, “ho pensato che potrebbe capitare anche a me di perdere il controllo, allora perché non dare a queste persone la possibilità di ripensare la propria esperienza, di ricostruire la propria identità, di non rimanere per sempre un ex carcerato?”.

È una storia simile quella all’origine della cooperativa veneziana Rio Terà dei Pensieri, fondata da Raffaele Levorato nel 1994, quando un suo ex collega ha compiuto un gesto estremo, un omicidio, che lo ha condotto in carcere nel 1993. Tra i banchetti della fiera di Milano, tra le borse e gli astucci in pvc della linea Malefatte, incontro Liri Longo, 39 anni, presidente della cooperativa, che opera nelle due carceri della città, la casa circondariale maschile, con circa 300 detenuti, e l’istituto penitenziario femminile della Giudecca, con circa 80 detenute. “Oggi siamo 28 soci, tra cui anche alcuni detenuti”, spiega Liri, “includere i detenuti tra i soci permette loro di partecipare attivamente alle decisioni della cooperativa e consolidare il rapporto con noi, magari proseguire a lavorare anche dopo il carcere”.

La linea di borse e astucci, realizzati con materiale di riciclo, è l’evoluzione di un laboratorio di pelletteria, una delle tante attività della cooperativa che conta anche una serigrafia presso il carcere maschile, un secondo laboratorio di pvc all’esterno del carcere e un servizio di pulizia per le strade. Si estende per circa 6000 metri quadri sulla laguna, invece, l’Orto delle Meraviglie, il terreno coltivato dalle detenute secondo i principi dell’agricoltura biologica, da cui estraggono anche essenze ed erbe per il laboratorio di cosmetica. “Ho conosciuto la cooperativa nel 2000, proprio andando a comprare la verdura dell’orto”, racconta Liri.

Rio Terà dei Pensieri ha compiuto 20 anni lo scorso settembre. Si chiama “Grazia del Fare”, il libretto prodotto in occasione dell’evento, dove si racconta la genesi, lo sviluppo, gli sbagli e il consolidamento di una delle attività più durature nel panorama dell’economia carceraria italiana, tra il processo delicato del passaggio dal puro volontariato alle dinamiche d’impresa e soprattutto la decisione di “mettere al centro dei propositi il carcere più difficile a Venezia, il maschile circondariale, sconsigliato da quasi tutti i consiglieri interessati e da tutte le tentazioni a semplificare, a ridurre la cooperazione all’andamento del volontariato meramente assistenziale”, non solo, anche la presa di posizione e la volontà di sfidare la diffidenza, collocando, tra i primi in Italia, i detenuti ai banchi di vendita, “accrescendo nel tempo un sentimento di fiducia, fondato sulla vicinanza accogliente dei clienti, sullo stimolo a cercare contatti e comuni intese da parte di questi, piuttosto che adeguarsi ai giudizi e ai pregiudizi, alle scorciatoie del disprezzo e dell’allontanamento”.

È questa l’intenzione di tutte le cooperative, che, sotto il marchio Freedhome, ambiscono a una maggiore concretezza, a una più facile distribuzione geografica dei prodotti e una migliore organizzazione logistica per fiori e punti vendita temporanei, a un’identità immediatamente riconoscibile, da Genova a Ragusa, da Torino a Gravina di Puglia, per mettere a frutto il capitale umano portato all’esasperazione dal tempo vuoto del carcere ma soprattutto per salvaguardare questa “grazia del fare”, che sembra giovare anche a chi dietro le sbarre ci lavora soltanto.

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