Raccontare l’Africa

Domenica 28 giugno, ore 17.30, parco di Villa Pariani, Festival LetterAltura. Intervista a due voci a Marco Pastonesi e Marco Trovato a margine del loro intervento sul significato dello sport nel continente africano

di Chiara Catenazzi

Marco Pastonesi, penna della Gazzetta dello Sport, scrive soprattutto di rugby e ciclismo. È autore di diversi libri tra i quali Meo volava. Avventure e sventure di Venturelli, La leggenda di Maci, Gli angeli di Coppi, Pantani era un dio e La corsa più pazza del mondo. Ed è proprio quest’ultimo che racconta le peripezie del Tour du Faso, parla di uno spaccato di Africa, di umanità, di sport.
Marco Trovato è giornalista e reporter indipendente, direttore editoriale della rivista Africa. Attraverso i suoi articoli, reportage e fotografie scopre e ci svela questo continente da più di vent’anni. Insieme a Marco Garofalo è curatore della mostra fotografica One day in Africa, esposta durante i giorni del Festival alla Casa Ceretti.

Marco (Trovato), la mostra One day in Africa è un modo per raccontare un continente. Che importanza assume di questi tempi una testimonianza del genere?

Diciamo che il mondo dell’informazione giornalistica in Italia è estremamente pigro, miope, autoreferenziale, fatica a raccontare le cose come stanno. Le immagini che sono esposte in questa mostra rappresentano scene che chiunque può vedere in Africa, ci si inciampa nei villaggi o nelle periferie e nei centri delle metropoli. Purtroppo però il giornalista assetato di esotismo o di pietismo racconta dell’Africa uno spaccato che sempre meno risponde alla realtà. Noi parliamo di Africa come se intendessimo un’entità unica, omogenea, monolitica, ma in realtà esistono cinquantaquattro stati, alcuni dei quali sono dei veri colossi che contengono centinaia di paesi. Kapuściński diceva che l’Africa addirittura non esiste, è una nostra invenzione. Bisognerebbe parlare di “Afriche”, al plurale. Per il mondo dell’informazione Africa è sinonimo di guerre, devastazioni, crisi umanitarie, oppure di Masai. Quindi One day in Africa è un messaggio dirompente in questo panorama triste, racconta una realtà che in verità è sotto gli occhi di chi visita l’Africa. Per anni abbiamo raccontato un continente dove c’erano pochi oligarchi tiranni, avidi, corrotti, ricchissimi e una massa enorme di poveri. Oggi in Africa ci sono trecento milioni di persone, ci sono anche quelli che un tempo avremmo chiamato borghesi, oggi classe media, che risparmiano, investono, acquistano. E’ un mondo nuovo ed in pieno movimento che quella mostra racconta e che bisognerebbe perlustrare, indagare, anche solo per una questione di opportunismo. Infatti ci sono potenziali interessi economici. Oggi l’Africa non ha bisogno di filantropi, ma di informazione corretta e cooperazione intesa come investimenti e volontà di andare sul posto per costruire un rapporto alla pari.

Che valore aggiunto possiedono dunque il reportage, la fotografia ed il reportage fotografico nel raccontare l’Africa, “le Afriche”?

Marco Trovato. Parlo dal mio punto di vista: sono direttore di una rivista di nicchia, povera, letta da pochi, che però in virtù di questo mi permette di fare cose che magari un grande editore non mi permetterebbe. Però noto un problema alla base, ci ostiniamo a raccontare l’Africa stando rinchiusi nelle redazioni, quindi abbiamo l’illusione di avere tutto a portata di mano, anzi di mouse. Siamo inondati di informazioni e notizie tramite internet e invece io ritengo che l’Africa, come tutti i posti del mondo, è piena di notizie che attendono di essere scoperte. Bisogna andare sul posto e raccontare, cercando di farlo con passione, rispetto, curiosità. Spesso nella notizia ci si inciampa, quindi l’utilizzo delle immagini e del reportage costituisce un valore aggiunto rispetto all’informazione filtrata dalle grandi agenzie o comunque veicolata dai grandi canali, che rischia di essere un po’ asfittica. Mi è capitato molte volte di partire per un paese e rincorrere delle notizie ma poi inciampare in altre che nessuno aveva ancora raccontato, perché non si trovavano informazioni su internet. Quindi questo tipo di testimonianza, anche iconografica, è preziosa.

Marco Pastonesi. Anch’io parlo come esperienza personale. L’unico giornalismo che può aggiungere qualcosa di nuovo è il reportage, perché se no è tutto un copia e incolla. Il reportage, che sia fatto in Africa o che sia fatto in altri paesi, comunque è una scoperta, un’esplorazione. In Africa questo diventa immediatamente più colorito, peccando a volte di pietismo e di retorica. Nonostante tutto si tratta, anche nel mondo dello sport, della strada che bisogna percorrere, è una miniera perché ancora un genere poco considerato. Forse perché i giornali non pagano più, non sostengono le spese degli inviati, quindi ci si affida a pochi coraggiosi che investono su loro stessi.

Cercando un punto di vista originale per descrivere questo continente, evitando gli stereotipi, quali tematiche si potrebbero prendere in considerazione?

Marco Pastonesi. Lo sport è la chiave più divertente e metaforicamente più vicina alla vita, lo è a tal punto che forse a volte è la vita che è una metafora dello sport a volte. Lo sport è la chiave di interpretazione per comprendere la vita di una persona, di un quartiere, di una tribù o di un popolo di una categoria, di una disciplina. Poi è il mio modo. Per me è il modo più romantico ed allegro.

Marco Trovato. Quelle che ha scritto Marco (Pastonesi) sono delle storie che raccontano una vera favola ciclistica. Le persone che hanno partecipato alle corse sono riuscite a scrollarsi di dosso la loro condizione sociale. Io trovo sempre interessante perlustrare il mondo sportivo perché da lì spesso provengono molte notizie e incontri con personaggi straordinari. Abbiamo parlato di atletica, ciclismo, pugilato, scherma, ma anche di sport più particolari. Mi viene in mente una storia della quale verrà a conoscenza il mondo tra qualche mese grazie a un film di Walt Disney. E’ la storia di Phiona Mutesi, una ragazzina ugandese cresciuta in uno slum di Kampala, ma che grazie al suo talento per gli scacchi è diventata campionessa del suo paese e ha partecipato alle Olimpiadi. Di storie così l’Africa è piena, perché lì si vive lo sport come un’occasione di riscatto, per esempio anche il ciclismo. Sono rimasto delusissimo dalle cose che sono emerse sul ciclismo europeo, occidentale, spero che questi sportivi africani non facciano lo stesso, perché ci fanno riassaporare il vero piacere di vivere lo sport. Non vorrei che succedesse quello che diceva Marco nel suo ultimo intervento, cioè la possibilità di trasformare queste persone assetate di vittorie genuine in campioncini viziati e drogati di sponsor. Questo è un pericolo vero. Un esempio è il calcio africano: la Coppa d’Africa dieci anni fa era spassosissima, c’erano partite che finivano 16 a 15, cose inverosimili, noi lo si raccontava in maniera scanzonata. Oggi invece, l’ultima Coppa d’Africa è stata noiosissima, ormai i campioni africani giocano tutti in Europa, per cui hanno imparato la tattica e la tecnica che si usano qui, è un calcio europeizzato, è diventato più competitivo ma anche più noioso.

Lo sport, in particolar modo il calcio. Quali altri aspetti emergono, oltre a quello del riscatto sociale, nell’affrontare questo tema?

Marco Pastonesi. Finché si tratta di scoprire il talento e valorizzarlo, va benissimo. Il guaio è quando diventa un mercato. Anche nel calcio l’ideale è fantastico, è il massimo dell’umanità, poi c’è l’aspetto commerciale che è quello deleterio, si rovinano e marciscono i rapporti. Ci sono state molte promesse, c’è della gente africana che viene qui su uno scafo, ma anche dei ragazzi africani che vengono qui con la speranza di un ingaggio, di una carriera calcistica e poi vengono travolti dal destino contrario. Lo sport è anche uno strumento formidabile di integrazione, non esistono squadre, dal calcio al rugby, dove non ci siano ragazzi di provenienza e cultura diversa. Secondo me lo sport è l’ambito in cui l’integrazione riesce sempre, è più immediato anche rispetto alla scuola.
Legandosi proprio alla questione della speranza, spesso tradita, il calcio e lo sport in generale danno una speranza a qualcuno, ma non a tutti. Tra coloro che sperano di realizzare il proprio destino andandosene dall’Africa uno ci riesce, altri centomila no. Un commento sulla questione della cittadinanza, dei confini e dei limiti stabiliti attraverso questi concetti.

Marco Trovato. Penso che le reazioni scomposte a cui stiamo assistendo in queste settimane da parte dell’opinione pubblica, della nostra politica, siano reazioni di un’ Europa incapace di guardare al futuro con ottimismo ma anche lucidità. Siamo ormai un continente vecchio che guarda al futuro non più come opportunità ma con timore, quindi cerchiamo di difendere le conquiste che pensiamo essere dovute, come un sacrosanto diritto divino, e tutto quello che invece va a mettere in discussione questi equilibri ci spaventa. In realtà sappiamo bene che si tratta di reazioni totalmente irrazionali. Per esempio il numero degli immigrati che arriva nel nostro paese è sostenibile ed inferiore ai numeri presenti in altri stati con problemi ben più gravi dei nostri. Per esempio il Libano dove un terzo della popolazione è composto da rifugiati siriani. Le nostre leggi sono piuttosto deliranti perché cercano di frenare un processo inevitabile. Chi di noi non scapperebbe difronte a un regime che nega le libertà fondamentali o difronte ad una guerra? Chi non cercherebbe di offrire ai propri figli una prospettiva migliore di quella che il proprio paese può offrire? Abbiamo bisogno di queste persone che hanno una spinta in più, così come nello sport, nella vita in generale. Sono come i nostri nonni, quelli che andavano in Belgio, negli Stati Uniti, avevano la loro stessa fame. E hanno costruito una pagina importante di questa storia.


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