di Paola Tavella, per Parada Italia
Juliana Dobrescu sfila un libro dalla borsa e lo apre a metà. Fra le pagine tiene cinquanta ron, più o meno dieci euro. Ionut, uno dei suoi ragazzi, le ha chiesto un prestito di cento euro prima di emigrare in Italia per fare il boscaiolo, e quando ha ricevuto il primo stipendio glieli ha spediti. Dopo un anno, si sono incontrati di nuovo nei bassifondi di Bucarest. Ionut aveva bisogno di cinquanta ron, Juliana non ha battuto ciglio e glieli ha messi in mano. I suoi colleghi, tutti operatori sociali, hanno pronosticato che non li avrebbe più rivisti. Juliana se n’è fregata. Dopo un mese Ionut è capitato a Parada, organizzazione non governativa fondata dal clown franco-alegerino Miloud e sostenuta da Enel Cuore, che si prende cura dei bambini di strada, soccorrendoli e insegnando l’arte circense.
Juliana lavora lì, e lì Ionut le aveva riportato dieci pezzi da cinque ron: «Ora non riesco a spenderli – ride –. Mi dico che dovrei usarli per comprare qualcosa di significativo, ma per me niente è più significativo di questi soldi». Juliana è un ingegnere chimico. Durante gli anni del comunismo lavorava in un istituto di ricerche, si occupava di acque reflue. Quando il regime è crollato, ha visto famiglie normali finire in miseria da un giorno all’altro, e disgregarsi, perdere casa, il lavoro, il cibo. «Chiudevano gli uffici, le fabbriche, i negozi. La gente si rifugiava in campagna, ma non sapeva lavorare la terra. I bambini erano le prime vittime della catastrofe sociale: perdevano tutto, anche la scuola. Quando finivano soldi, cibo, elettricità, acqua, quando i loro genitori si lasciavano, cominciavano a bere, a picchiarsi, a usare violenza anche su di loro, allora i figli se ne andavano, e finivano in strada».
Quando il regime è crollato, ha visto famiglie normali finire in miseria da un giorno all’altro. La gente si rifugiava in campagna, ma non sapeva lavorare la terra. I bambini erano le prime vittime della catastrofe sociale: perdevano tutto, anche la scuola
Per Bucarest si aggiravano torme di bambini soli, scappati, perduti, oppure sfuggiti agli orfanotrofi, enormi istituti mal riscaldati, con poco personale, dove in oltre cinquemila erano stati denutriti e maltrattati. Fin dal 1966, infatti, il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu aveva proibito l’aborto e i contraccettivi. Ogni donna sposata sotto i quarant’anni era obbligata ad avere un minimo di quattro figli. Molte famiglie non potevano mantenerli, quindi li affidavano a orfanotrofi gestiti dallo Stato, dove morivano e si ammalavano. Dopo la caduta del regime sono stati chiusi 48 orfanotrofi, ma il sistema di affido, adozione e case-famiglia non sempre ha funzionato. Centinaia e centinaia di minorenni, anche in tenera età e abbandonati a se stessi, vivevano come e dove potevano, mendicavano, rubavano, si prostituivano, si ubriacavano, sniffavano la colla. «Avevano undici, dodici anni, anche meno. Non posso dimenticare una di loro, molto arrabbiata con sua madre. Diceva: “La mamma manda la mia sorellina a chiedere l’elemosina, è così piccola che i passanti s’impietosiscono, ma in questo modo lei non va più a scuola, e se insisto risponde che deve trovare i soldi per nostra madre. Così sono andata via, ho portato la piccola con me. In casa non abbiamo niente, invece nei tombini trovo acqua calda, riscaldamento, elettricità, e una nuova famiglia, composta da ragazzi come me”».
Juliana ritiene che per alcuni la strada sia una scelta obbligata, perfino una buona scelta rispetto alle condizioni di partenza. Sulla strada arrivano i più robusti, i più intelligenti, quelli capaci di imparare le mille leggi del vagabondaggio e rispettarle, quelli che nutrono ancora speranza per il futuro. E infatti, sotto la minaccia del gelido inverno rumeno, i più intraprendenti fra i copii strazii hanno aperto i tombini d’accesso ai condotti del riscaldamento. A Bucarest, come in molte città dell’Est, esiste il riscaldamento generale, giganteschi tubi dell’acqua calda corrono sotto il selciato. Il sistema dei tombini dà accesso a grandi vani di manutenzione, i ragazzi vivono lì in trenta, in cinquanta.
Il fenomeno fece scalpore anche all’estero, il governo rumeno istituì una équipe di dieci persone, Juliana decise di cambiare mestiere: «Volevo dare una mano, e impegnarmi nell’ambito umanitario. Sapevo che avrei perso sicurezze, denaro, prestigio, ma non m’importava. Avevo 38 anni, ero una signorina per bene, portavo ancora la gonna», racconta con un sorriso autoironico, ora che mette solo pantaloni, scarpe basse, borse a tracolla, «una mia collega, Lilli, mi ha accompagnato alla Gare du Nord, la stazione centrale di Bucarest che ospitava un gruppo enorme di bambini di strada. Abbiamo incontrato tre ragazzi luridi, lei li ha abbracciati, io gli ho stretto la mano, in segno di rispetto. Alla fermata della metro di Brancoveanu i colleghi giocavano a dadi con una ragazzina con il cranio rasato che sembrava un uomo. Tutti portavano ai bambini vestiti, scarpe, mentre io non avevo proprio niente. I ragazzi mi hanno chiesto: allora perché sei venuta? Ho risposto che ero lì in visita. Il giorno dopo ho cominciato a insegnargli matematica, facevamo gli esercizi sul retro dei volantini elettorali. Ci siamo conosciuti così, ben presto passavo con loro tutto il giorno».
Sulla strada arrivano i più robusti, i più intelligenti, quelli capaci di imparare le mille leggi del vagabondaggio e rispettarle, quelli che nutrono ancora speranza per il futuro
I soldi pubblici durarono appena un anno, il finanziamento non fu mai più rinnovato. Save The Children prese l’iniziativa di sostenere quel progetto, assumendo tutta la squadra, e fra loro Juliana. Così è diventata la più vecchia operatrice di Bucarest, la memoria storica del fenomeno dei copii strazii, esperta di colla e un po’ delle nuove droghe etnobotaniche che stanno sostituendo la colla, si vendono a poco, legalmente, sotto forma di sali da bagno, incensi, concimi, e bruciano il cervello. I ragazzi di strada se le iniettano, moltiplicando il rischio di malattie. Molti di loro sono sieropositivi, è facile prevedere che sarà l’AIDS la nuova emergenza umanitaria. Paradossalmente, dicono i medici, era quasi meglio quando i bambini sniffavano solo la colla o si facevano l’eroina, perché l’eroina è difficile da trovare, non è allucinogena, e almeno se ne conoscono gli effetti.
Juliana, che tuttora passa per strada almeno tre notti alla settimana, è alta, forte, con lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle – la sua unica civetteria – e modi burberi e diretti che non riescono a nascondere la sua profonda gentilezza. «Ricordo che a Brancoveanu, come mossa d’apertura, ho indetto una campagna per la pulizia, gli ho insegnato a lavarsi. Poi ho proibito di dire parolacce davanti a me e, con mio enorme stupore, i ragazzi hanno smesso. Volevo insegnargli a pensare, prima di aprire la bocca. Se sei ricco, spiegavo, puoi dire le parolacce e andare dappertutto. Se sei povero, sii almeno bene educato, così otterrai rispetto, e sentendoti rispettato reagirai meglio. Speravo di avviare un circolo virtuoso». Una cagna bianca, un po’ malferma sulle zampe, si avvicina a Juliana e le tocca la mano con il suo grande naso rosa, guardandola con occhi pieni d’amore. È Jery, trovata nella spazzatura a pochi giorni, e cresciuta a Parada. I ragazzi dei tombini rivolgono a Juliana lo stesso sguardo, la chiamano sempre Dna (signora) Juliana.
Juliana non dà soldi, ma accompagna in farmacia, distribuisce sigarette, zuppa calda e vivande che viaggiano sul pulmino di Parada
Una notte ha accettato di portarmi con sé; ho visto tre ragazzi mettere via in fretta il sacchetto di colla per porgerle dei fiori, rubati chissà dove. Lei è tranquilla, amichevole. Li abbraccia, li tocca, esamina ferite, morsi di topi e di insetti, slogature, si siede con loro e ascolta storie, scherza, dispensa consigli. Non scende mai nei canali: «Voglio testimoniare che si può vivere in un altro modo, non è giusto vivere come loro». Non dà mai soldi, ma accompagna in farmacia, distribuisce sigarette, zuppa calda e altre vivande che viaggiano sul pulmino di Parada, comprato con il denaro di Enel Cuore, offerte dai cuochi dell’Hilton e da un gruppo di signore francesi filantrope, che tutti i giorni cucinano per icopii strazii.
Juliana Dobrescu ha visto generazioni di bambini di strada crescere, invecchiare, farsi distruggere dalle droghe, dal freddo, dalla paura, dalla sfortuna, e salvarsi solo qualche volta. «Nel 2000 ho avuto un burn out, non ce la facevo più. Per sei mesi sono rimasta a casa. Avevo la sensazione che non si potesse fare niente di reale per i ragazzi, temevo di combattere senza speranza contro un sistema che li rifiuta e li tiene ai margini». Poi il capo dei copii straziidel tombino della metro di Uniri andò a cercare Juliana, le chiese udienza con ogni riguardo. «Quello di Uniri era il gruppo più numeroso, e si offrirono di assumermi. Mi proponevano uno stipendio mensile davvero alto, il più alto della mia vita, purché lavorassi per loro. Dissero che avrebbero venduto il rame, il ferro, l’alluminio, la carta, che avrebbero fatto qualunque mestiere pur di pagarmi puntualmente. Mi commossero profondamente, però avevo fondati sospetti sui metodi reali con cui si sarebbero procurati i soldi per il mio famoso stipendio. Così sono tornata a Parada. E sono ancora qui».
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