Un rito pagano collettivo che pervade il vissuto di chi partecipa, oltre la dimensione meramente artistica
di Giusi Affronti
Napoli, 23 Maggio 2010 – E’ il giorno della Festa di Pentecoste, conosciuta nell’Antico Testamento come festa della mietitura e delle primizie. La vigna San Martino, di proprietà della famiglia napoletana Morra, è palcoscenico di 130. Aktion Pfingstfest.
Quella di Hermann Nitsch non è un’arte da museo e l’azione, come in una sagra intitolata al ciclo della terra, si compie lungo un giorno intero terminando in una processione nei campi. Una banda di strumenti a fiato e un quintetto d’archi eseguono partiture musicali che l’artista stesso compone. Si aggiungono, negli acuti di parossismo dionisiaco, ottoni, percussioni, campane, suoni vocalici e grida sboccate.
Su un tavolo, pesci e frutti di mare come polipo, tonno, cefalo, calamari e triglie. E’ il vischioso spettacolo della vita e della morte che si manifesta, quotidianamente, nei grandi mercati delle città affacciate sul mare. Vicino alla carne cruda, umida e sanguinolenta, si percepisce l’odore intensamente dolciastro di pomodori, di ciliegie e di lamponi.
L’atmosfera lussureggiante delle vivande diviene colore: rosso umido di polpa, rosso aspro di visciola, rosso scarlatto di uva, rosso carminio di carne appena tagliata. La vista ne viene abbacinata, l’olfatto ne è ebbro. Intorno al tavolo imbandito, il corpo nudo di un’attrice è disteso su una portantina a forma di croce; la testa è rivolta a sud e una benda le copre gli occhi. La ritualità orgiastica culmina, poi, nello sventramento di un agnello morto, recuperato dai mattatoi e altrimenti destinato all’industria alimentare. Interiora e sangue irrorano il corpo mistico della donna e lo spazio diffuso dell’azione.
È un rito pagano collettivo che pervade il vissuto di chi partecipa, oltre la dimensione meramente artistica. Frenesia, eccitamento, turbamento, disgusto, orrore: è tutto violentemente vero, fisico. Come i pezzi di carne cotta che gli officianti sono invitati a mangiare mentre l’artista rovista con le mani nelle viscere ancora calde dell’animale dilaniato, insudiciando il suo camice bianco tagliato a forma di tonaca.
Il lezzo da macello si mischia con il profumo dell’incenso. E’ tachisme. E’ una festa dei sensi e di liberazione. E’ la messinscena teatrale dei Misteri del Basso Medioevo. E’ la celebrazione dell’Eucarestia cristiana sull’altare dell’arte che non ricorre a simboli, dove l’ostensione dell’Agnus Dei non è una cialda di pane azzimo ma brandelli di carne, bagnati di sangue.
Diciamolo: è difficile restare indifferenti. Nitsch – uno sulla cui fedina penale gravano tre pene detentive e una manciata di processi – è roba per stomaci forti. Per animalisti integralisti e scettici dell’arte contemporanea resta l’onta di un linguaggio feroce e incomprensibile. “Dov’è l’arte?” – lo so, se lo stanno chiedendo.
Hermann Nitsch (Vienna, 1938) – diploma di grafico pubblicitario nel cassetto – è, insieme a Günter Brus, Otto Mühl e Rudolf Schwarzkogler, uno dei “ragazzacci” del Wiener Aktionismus: parola che suona come lo stridio di unghia su una lavagna. Corrono gli anni Sessanta e altro non è che la declinazione austriaca della Body Art, nutrita delle nevrosi dell’Espressionismo mittleuropeo e del pensiero di autori come Freud, de Sade, Artaud e Nietzsche. Erede dei tormenti inferti al corpo dalla pittura di Schiele e Kokoschka e dalla letteratura introspettiva di Schnitzler, gli Azionisti insistono, con atteggiamento dissacratorio, su problematiche di matrice sadomasochistica e autolesionistica, sperimentando situazioni estreme.
A proposito di eccessi, Nitsch, nel 1971, acquista il castello di Prinzendorf, che domina il paesaggio del Weinviertel, a cinquanta chilometri da Vienna, circondato da boschi, campi di grano e vigneti. Qui, luogo del suo Das Orgien Mysterien Theater, trent’anni dopo, realizza una performance della durata di sei giorni e sei notti. Cento attori e centottanta musicisti. Tredicimila litri di vino. Mille chilogrammi di pomodori e uva, diecimila di rose e tulipani. Mille litri di sangue. Maiali, pecore e tre tori. Sessanta portantine e centro tavoli da processione. Diecimila metri di lino, per le azione di pittura. Cinquecento camici bianchi e cinquemila fiaccole. E, nel quinto giorno, due carri armati.
“Sì, ma dov’è l’arte?”. Un attimo di pazienza, signori.
Una drammaturgia complessa e ridondante, quella di Nitsch, che muove dalla tragedia greca classica. Senza la finzione del palcoscenico. Senza maschere: senza Edipo, Oreste o Antigone. Poiché tutto accade (happening, appunto, nel linguaggio degli storici dell’arte) realmente davanti agli occhi, sotto il naso e attraverso il corpo degli spettatori. Manca, ancora una volta, l’ipocrisia del simbolo. Si parla, senza inutili giri di parole, dell’implacabilità della morte e dell’efferatezza dell’esistenza. E’ solo esperendo i più bui e atavici istinti dell’uomo che può esserci catarsi. O redenzione, se preferite. L’esperienza sensuale del delirio dionisiaco diviene un esorcismo capace di scuotere le coscienze anestetizzate dal perbenismo di una società capitalista. Quasi fosse una seduta collettiva da uno psicanalista.
Squartare un animale – altrimenti macellato e tagliato in confezioni igieniche, in mostra sugli scaffali di un supermercato – e affondare le mani nel sangue del suo ventre fumante è una mise en scène cruda e primitiva. Vero. La pulsione bestiale alla distruzione, la violenza e la morte, però, appartengono al nostro mondo: Srebrenica, Ruanda, Mar Mediterraneo … e l’elenco potrebbe srotolarsi ad libitum. Che ci piaccia o no. Che generi raccapriccio o no. Che ci offenda oppure no.
Quanto alla vostra domanda “L’arte? Dov’è l’arte?”, potete non riconoscerla nella ricerca di un artista come Hermann Nitsch che, nonostante l’orrore, non ha perso fede nell’utopia. A denti stretti dovete, però, concedere che nei discorsi fin qui fatti ci siano le viscere della natura e della storia dell’uomo, di ogni tempo. <
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