All’indomani dell’approvazione della legge sulla “buona scuola”, uno sguardo sulla scuola vera con la recensione di “Un’altra scuola”, romanzo diario dell’insegnante Giovanni Accardo edito da Ediesse
di Giulia Bondi
C’è il fossile, il collega retrogrado per cui l’unico poeta buono è quello morto. C’è la classe 2.0, dove si lavora con i tablet ma non sempre funziona la connessione, così si finisce per distrarsi e isolarsi gli uni dagli altri. C’è l’“udienza” con i genitori, così si chiama il ricevimento nelle scuole altoatesine. C’è il ragazzino bullo, che ne perseguita un altro e arriva a sancire modi e forme della vessazione con un contratto scritto.
C’è il vicino di casa appassionato di trekking, e i suoi inviti costantemente rifiutati, perché ci sono i compiti da correggere e le lezioni da preparare. Ci sono le email degli ex studenti che criticano, commentano o ringraziano un professore a tratti un po’ narciso o troppo ironico ma certamente impegnato e appassionato. Ci sono le attività extra, dagli incontri con gli autori ai film girati a scuola. C’è il bilinguismo (“ma a cosa ci serve il tedesco se poi tutti parlano dialetto?”) e le differenze tra scuole italiane e tedesche nella provincia di Bolzano.
C’è tanta scuola, forse non sempre “buona”, ma certo vera e pulsante, nel libro di Giovanni Accardo che Ediesse ha pubblicato nella collana “Carta bianca” diretta da Angelo Ferracuti. “Un’altra scuola: Diario verosimile di un anno scolastico” è uscito a maggio 2015, quando era ancora in discussione la proposta di riforma della scuola voluta dal Governo Renzi, che dal 9 luglio 2015 è diventata legge dello Stato. Un diario non vero, precisa l’autore, ma verosimile, costruito assemblando nell’unità di tempo di un unico anno scolastico storie accadute in scuole diverse e in anni diversi.
“Vero per soggetto, interessante per mezzo, utile per iscopo”: così dovrebbe essere un romanzo storico secondo la poetica di Alessandro Manzoni. E così è il lavoro di Accardo, che, nella terra di confine della scuola altoatesina, incontra e racconta colleghi eccellenti e altri sfaticati, insegnanti che sembrano odiare gli studenti (e la vita) e altri che si ostinano a credere, e lottare, per trasmettere ai ragazzi la passione per la conoscenza prima ancora che nozioni o concetti.
Giovanni Accardo usa l’escamotage di una lettera ai colleghi per sfatare il mito, condiviso da tante persone fuori dalla scuola, dell’orario di lavoro troppo ridotto: “L’uomo della strada – scrive – non sa che se gli insegnanti timbrassero il cartellino ogni volta che a scuola o a casa propria svolgono una qualunque attività per la scuola e per i loro studenti, il carico di lavoro settimanale oscillerebbe tra le 36 e le 40 ore, in qualche caso potrebbe arrivare a 50”.
Dati alla mano, usando il rapporto Ocse Education 2012, confronta il livello di retribuzione con quello degli altri paesi europei: 36 mila euro l’anno in Italia contro i 67mila della Germania o i 45 mila dell’Austria, senza dimenticare che gli insegnanti austriaci lavorano in media 589 ore l’anno contro le 630 dell’Italia.
Ma più che di dati, Accardo fa uso di storie. Le storie dei suoi studenti che ce l’hanno fatta nonostante le difficoltà, per esempio, servono a sostenere l’idea dell’inadeguatezza dei test Invalsi, quesiti a risposta chiusa che non sempre misurano, anzi spesso umiliano, gli sforzi e i progressi dei ragazzi.
E il racconto di una giornata di seminario con colleghi di materie umanistiche serve per sciorinare un elenco di desideri e domande di cui sarebbe bello tenesse (avesse tenuto?) conto chi ha la responsabilità di prendere decisioni su come riformare il sistema scolastico: “L’ossessione della scuola oggi è la valutazione. (…) Il sapere disciplinare può essere ancora difeso senza confrontarlo con la realtà di oggi? (…) La scuola non può trasformarsi in una televisione parallela, piuttosto deve far conoscere ai ragazzi qualcosa che fuori non c’è, che fuori non troverebbero. Gli insegnanti devono essere immersi nella realtà, mostrare interesse e curiosità verso gli studenti, non distanza o disprezzo. Cambiare il criterio con cui vengono selezionati gli insegnanti, dando più spazio alla relazione e meno al sapere disciplinare. (…) L’attenzione spasmodica alla memoria è il contrario della storia. (…) C’è tanto sapere da insegnare e poco tempo a disposizione, allora si crede di risolvere il problema con i test a risposta multipla”.
Così, mentre ci si ostina a misurare performance e conoscenze in modo asettico (e terrorizzante per molti studenti), Giovanni e colleghi organizzano incontri con gli autori che fanno condurre agli stessi studenti, creano percorsi interdisciplinari, si attivano personalmente per i ragazzi con situazioni familiari o personali difficili, non facendo mancare il proprio appoggio e la propria voce di adulti.
Esattamente come fanno, da decenni, tante e tanti (anche se certo non tutti) insegnanti nelle scuole italiane, da Palermo a Bolzano. Sono voci che sarebbe giusto ascoltare quando si decide di mettere mano al corpo vivo della scuola. Chissà, magari c’è ancora tempo di farlo, visto che la legge sulla buona scuola contiene ben nove deleghe, cioè materie sulle quali sarà il Governo a legiferare direttamente, avendo ottenuto mandato per farlo dal Parlamento. Magari.
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