Si parla unicamente del debito greco e di come ripagarlo, ma poco, troppo poco, si parla di come rimettere la Grecia sul sentiero dello sviluppo.
di Clara Capelli
Quanto sarebbe stato bello che la vicenda dei negoziati sul debito greco si fosse chiusa con la netta vittoria al referendum del 5 luglio dell’oxi, il no alle condizioni richieste dai creditori per lo sblocco degli aiuti. I giorni precedenti alla votazione sono stati caratterizzati da grande confusione, sia per la formulazione del quesito referendario, sia per l’impossibilità di definire con chiarezza cosa avrebbe comportato il “no”, se l’uscita dall’eurozona oppure l’ennesimo giro di sterili trattative.
Al di là delle personali ragioni di ogni greco che ha votato, il 5 luglio è stato accolto da molti come
una forte rivendicazione di dignità di una larga parte del popolo greco, che da oltre cinque anni vede le sue condizioni di vita deteriorarsi tra tagli alla spesa pubblica, aumenti della tassazione e misure che stanno ulteriormente indebolendo il tessuto socio-economico del Paese Un momento importante che ha scaldato di ispirazione il cuore di tanti, ma, come ha ben ricordato il Primo Ministro Tsipras nel suo discorso dell’8 luglio al Parlamento europeo, da anni la popolazione greca dice no, dalle manifestazioni di piazza agli scioperi fino al voto.
Il poeta tunisino Abu El Kacem Chebbi recitava in sua poesia poi divenuta simbolo delle sollevazioni del 2011 che “Quando un popolo sceglie la vita, il destino deve rispondere, le tenebre devono dissiparsi, e le catene spezzarsi”. Purtroppo Chebbi non conosceva né i poteri forti tunisini, né il Fondo Monetario, le istituzioni europee e i governi dell’Eurogruppo.
Il sipario non si è chiuso, la scena si è spostata di nuovo nelle aule e nei corridoi di Bruxelles, mentre dure prese di posizione contro ogni possibile concessione alla Grecia sono riportate da tutti i media. La ricreazione è finita e di nuovo, ancora una volta, come sempre negli ultimi cinque anni, la Grecia si trova a scegliere se uscire dall’eurozona oppure accettare le condizioni richieste dai creditori per ottenere gli aiuti necessari a ripagare i creditori stessi.
Ci vuole davvero grande resilienza per non cedere allo scoramento e al fastidio che queste modalità negoziali generano. Le trattative. Le condizioni per gli aiuti, sempre le stesse. La Grecia che accetta oppure – come in questi ultimi mesi – dà qualche spallata. E poi si ricomincia, ancora. Eccoci quindi al 9 di luglio, con Tsipras che presenta l’ennesima proposta, questa volta per un terzo programma di aiuti di 53 miliardi di prestiti su tre anni. Una proposta che, senza scendere troppo nei dettagli tecnici, ricalca con disappunto di moltissimi le condizioni rifiutate dal voto referendario del 5 luglio: riorganizzazione del sistema pensionistico, aumento del carico fiscale e semaforo verde a una serie di privatizzazioni.
A sentire gli interventi al Parlamento europeo o a leggere le interviste dei diversi leader dell’Eurogruppo sembra di vedere passare sugli schermi sempre lo stesso trito messaggio, il medesimo brutto film. Le riforme, il bilancio, l’efficienza, la modernità. Cinque (e più) anni a parlare di debiti da ripagare, di greci pigri e irresponsabili complici di un sistema corrotto e spendaccione, come se un popolo fosse contento delle ingiustizie intrinseche al proprio Paese o potesse essere identificato completamente con esse.
Ma allora, per aggiungere delle ripetizioni ad altre ripetizioni, alcuni punti vanno ribaditi, perché
troppo poco spazio hanno avuto nel dibattito di questi anni e degli ultimi mesi in particolare, stretti tra vuoti discorsi e immagini sensazionalistiche dei pensionati greci in coda alla banche. In primo luogo, si può chiosare quanto si vuole e finché si vuole sulle condizioni per gli aiuti, ma è necessario riflettere che sia la storia sia la teoria e la ricerca economica offrono ampie conferme sul fatto che queste misure non solo non funzionano, ma sono depressive per l’economia che le adotta, specialmente se si tratta di un’economia in crisi.
I politici e gli esperti (anche quelli da bar) che puntano il dito contro l’incapacità della Grecia di “fare riforme” hanno presente che politiche sono state introdotte negli ultimi anni? E soprattutto, possono indicare un solo esempio negli ultimi trent’anni – diciamo dalla crisi del debito degli anni 80, cui seguì il cosiddetto lost decade, il “decennio perduto” in termini di sviluppo – in cui privatizzazioni, liberalizzazioni e tagli alla spesa pubblica hanno portato crescita e benessere condiviso?
La lotta alla corruzione e ai privilegi, dall’evasione fiscale, agli armatori greci, alla chiesa ortodossa che non paga le tasse. Sono tutti punti condivisibili, ma confondono il discorso, allontanano la discussione dalle questioni principali. In linea di principio tutti condanniamo il politico arraffone e l’armatore con il conto in Svizzera, ma un Paese non si riprende, né cresce, né risolve i suoi problemi con controlli fiscali, pareggi di bilancio e politiche di tassazione che somigliano più a operazioni di rastrellamento delle risorse che non a misure volte alla redistribuzione e al buon mantenimento del patto sociale.
Ecco quindi la grande assente di tutto questo chiacchiericcio: la crescita. Si parla unicamente del debito greco e di come ripagarlo, ma poco, troppo poco, si parla di come rimettere la Grecia sul sentiero dello sviluppo. A queste condizioni, senza investimenti e politiche per rilanciare la domanda interna non ci sarà crescita, ma i creditori paiono non curarsene. I debiti vanno ripagati, le riforme vanno fatte. Fine, perché questo vuol dire essere credibile, efficiente, moderno; questa è la tassa di iscrizione al club dell’euro.
Si arriva dunque al secondo punto cruciale che la narrazione prevalente della crisi greca ha largamente ignorato. Questa crisi non è una crisi di debito pubblico, non è – per quanto paradossale possa sembrare a chi crede che sia solo questione di politica nazionale– la conseguenza di una spesa pubblica sconsiderata.
Le responsabilità politiche ci sono, indubbiamente, ma un’analisi più accorta del sistema eurozona dimostra che queste sono da ripartirsi su più larga scala. Ed è alla luce di ciò che le modalità di gestione della crisi greca da parte dei creditori vanno criticate, non solo per le soluzioni proposte, ma anche e soprattutto per le letture che ne vengono date.
Il sistema euro è infatti un’incubatrice di instabilità, come dimostra il fatto che la Grecia sia solo il Paese più severamente segnato dalla crisi, ma tra il 2010 e il 2012 anche Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna sono stati colpiti. Innanzitutto, la rinuncia alla sovranità monetaria per la BCE indipendente fa sì che – in assenza di una Banca Centrale che acquisiti i titoli di debito – per finanziare il deficit pubblico i Paesi membri si trovino a ricorrere ai mercati finanziari internazionali, esponendosi alle loro valutazioni di solvibilità e ad attacchi speculativi. Questo è ciò che è accaduto in Grecia, il cui debito pubblico prima dello scoppio della crisi era larga parte in mano a banche tedesche e francesi.
Inoltre, le economie dell’eurozona si trovano a non avere il controllo sul tasso di cambio, con un euro che non riflette le reali condizioni dei singoli membri. I Paesi periferici soffrono per un tasso di cambio troppo forte, il che riduce la competitività dei propri prodotti rispetto a quelli provenienti dall’estero; dall’altra parte, i primi della classe, come la Germania, beneficiano di un euro debole che ha al contrario contribuito notevolmente alla forte crescita dell’export tedesco. Ingabbiando tutti nella moneta unica, sottraendo spazi alla politica senza compensare con una redistribuzione a livello di eurozona, le differenze tra “centro” e “periferia” si sono allargate, con quest’ultima a produrre sempre meno, schiacciata dall’impossibile competizione con Cina e Germania.
Né la volontà del popolo, né quella di illuminate classi politiche e imprenditoriali avrebbero potuto spezzare quelle catene, con buona pace dei sacerdoti delle riforme. Perché sono altre le riforme e le politiche che servono. Di un altro tipo è l’efficienza necessaria per promuovere una crescita più giusta sia in Grecia sia nel resto dell’eurozona.
Quando la cancelliera Merkel e il suo Ministro delle Finanze Schäuble alzano muri su muri rispetto a programmi di aiuti, alleggerimento delle politiche di austerità e riduzione del debito, hanno bene in mente che devono rispondere all’opinione pubblica tedesca. E qui emerge il terzo, enorme, problema (per
sintetizzare): la performance dell’export tedesco non si è accompagnata ad aumenti salariali, anzi, tutto il contrario: guardate i dati degli ultimi anni e scoprirete che i salari tedeschi hanno subito una significativa compressione.
Non chiedere aumenti, fai sacrifici, così la tua economia sarà competitiva, le imprese produrranno a bassi costi ed esporteranno e questo porterà benessere. Grattate la prima patina di dati macroeconomici e vedrete che il miracolo economico della Germania e della sua politica industriale presenta non poche zone d’ombra, banalmente sintetizzabili in un contenimento della domanda interna. E, a livello di sistema, in un ulteriore indebolimento della competitività e della base produttiva dei Paesi periferici.
Difficilissimo se non impossibile spiegare che, anziché chiedere che ai loro sacrifici in termini di potere d’acquisto facciano paio (ancora) quelli dei greci, dovrebbero rivendicare aumenti salariali. E altrettanto far passare a irlandesi, italiani, spagnoli e portoghesi che stanno facendo dei compiti odiosi che affosseranno ancora di più le loro economie, laddove anziché preoccuparsi dell’instabilità che l’indisciplinata Grecia potrebbe causare facendo default e optando per la Grexit dovrebbero sostenere le sue istanze, perché la questione riguarda anche loro.
Praticamente impensabile discutere con gli sloveni, gli slovacchi, i lituani, i lettoni, gli estoni – espressione di una linea nettamente intransigente riguardo alla questione greca, anche se quasi mai raccontata – che il problema non sono i greci irresponsabili che non vogliono fare sacrifici, ma che sono loro ad averne fatti troppi, sempre in nome della disciplina fiscale come regola aurea che riduce gli spazi per politiche sociali e investimenti produttivi.
Tsipras ha tradito il suo mandato? Indubbiamente la sua proposta, praticamente una capitolazione, fa
rabbia. Anche se contro un fronte così compatto tra istituzioni e Paesi europei le opzioni sono davvero
limitate, a meno che non si decida di uscire dall’eurozona, con conseguenze dure e difficili, ma avendo
almeno la possibilità di decidere del proprio destino. Resta da vedere come si esprimeranno i creditori (al momento non è possibile esprimersi con certezza sul fatto che accettino il nuovo programma di aiuti, per non parlare della riduzione del debito) e il parlamento greco. Di nuovo al punto di partenza, a scegliere tra la Grexit e un programma di aiuti che non risolverà nulla.
Al di là della goffaggine, addirittura della pavidità se vogliamo, del governo di Tsipras, bisogna però
tenere bene a mente questo: la Grecia non è l’eccezione, a queste condizioni il sistema euro continuerà a generare altra instabilità, che verrà prontamente mascherata dall’inefficienza pubblica, perché la carta dell’inadeguatezza del settore pubblico è un asso pigliatutto.
Perché è facile raccontare l’economia come una torta da spartire e se io mangio una fetta più piccola, allora anche tu devi fare come me, così impari a votare un incompetente politico populista: tutto si riduce all’ingegneria della distribuzione. Che è il fallimento stesso della politica.
Quanti appelli delle grandi firme dell’economia, da Piketty a Stiglitz, servono perché i politici europei decidano di affrontare davvero il problema, senza ricorrere a politiche scellerate e palliativi
solo per disinnescare la sfida che la Grecia pone all’eurozona e alle sue traballanti fondamenta? Il
debito greco, lo si è detto più volte, è insostenibile, impagabile, specialmente a queste condizioni.
Chi invoca la necessità di una conferenza sul debito ha dunque ragione, ma non deve essere solo una
discussione contabile sullo sfoltimento degli impegni debitori della Grecia, per il buon cuore dei
creditori: deve essere un ripensamento dell’intera architettura dell’eurozona, delle politiche che
restringono gli spazi di manovra per lo sviluppo della periferia, dal Mediterraneo ai Baltici; deve
essere una ridefinizione degli obiettivi comuni all’Europa tutta. Una svolta politica essenziale quanto
difficile da attuare, perché le narrazioni prevalenti sono avverse, ripiegate su spiccioli argomenti di
efficienza e conti pubblici.
La vera impresa per chi non solo in Grecia ma in tutta Europa vuole dire oxi è dunque tessere
e costruire la consapevolezza e la volontà per rivendicare questa “vita”, ossia scegliere la giustizia
all’efficienza: non l’Europa dei bilanci pubblici in ordine, ma quella di adeguate condizioni e opportunità per tutti, il che -per chiarire ancora una volta certe resistenze di pancia – non è né il trionfo del bolscevismo né quello del lassismo: è semplicemente una questione di dignità.
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale