Un webdoc racconta come una strage diventa un genocidio
di Samuel Bregolin
Per capire l’importanza di Srebrenica, vent’anni dopo il massacro di migliaia di persone, occorre prima di tutto capire cos’è Srebrenica. Per genocidio s’intendono, secondo la definizione adottata dall’ONU, “gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.
Tom Zwaan, esperto in genocidio dell’università di Amsterdam, teorizza: “Il processo di genocidio è costituito da una serie di eventi che si svolgono secondo una forma specifica con fasi identificabili, e dispone di una certa logica interna caratteristica. Il processo di genocidio progredisce dal suo inizio attraverso un percorso strutturato per la sua fine. In primo luogo, si deve definire un gruppo target (queste vittime di solito sono scelte esclusivamente sulla base del fatto che esse appartengono a un gruppo o una categoria specifica) e designarli per la persecuzione o la distruzione. In secondo luogo, la proprietà dei membri di tale gruppo deve essere espropriata. In terzo luogo, il gruppo deve essere concentrato in un’unica zona. In quarto luogo, il gruppo deve essere espulso. Infine, un numero significativo del gruppo deve essere ucciso. Anche se in realtà queste fasi possono svolgersi rapidamente una dopo l’altra, a seconda delle circostanze, si è osservato che le prime fasi del processo di persecuzioni possono verificarsi in piena vista del pubblico, mentre le fasi successive in molti casi sono avvolte nel segreto”.
La pianificazione dell’atto, oltre all’obiettivo preciso, è quindi ciò che distingue un massacro generico dal genocidio vero e proprio. La ONG Youth Initiative for Human Rights ha ritracciato qualche anno fa tutto il percorso che portò alla distruzione dell’enclave mussulmana di Srebrenica da parte dei militari serbo-bosniaci.
Ha ricostruito i fatti e gli antefatti, collegando elementi ed eventi. Ne hanno fatto un web doc interattivo, un sito internet dove si può navigare tra le date e gli eventi, con l’ausilio di documenti dell’ICTY (Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia), delle Nazioni Unite, video, fotografie e testimonianze.
Il webdoc di YIHR serve soprattutto a capire che a quel punto della guerra, trovare i camion, le ruspe e la benzina che furono impiegate per trasportare i cadaveri e seppellirli nelle fosse comuni è per forza di cose un’operazione che andava pianificata con un largo anticipo. La prova insomma, che lo sterminio di migliaia di persone fu calcolato e programmato: genocidio.
Diciassette mappe, per spiegare ai più giovani il meccanismo di un genocidio, le sue cause e le sue conseguenze, i fatti vengono descritti in ogni dettaglio e senza nessun commento, gli autori non danno nessuna interpretazione o conclusione su quanto accaduto, per non influenzare l’opinione dell’utente. Un webdoc freddo e razionale come un genocidio, ma proprio per questo tremendamente efficace nel parlarci della brutalità di quanto avvenne.
CLICCA SULLA FOTO PER NAVIGARE IL WEBDOC
Andare a Srebrenica nei giorni della commemorazione è ancora traumatico ed angosciante, ma con gli anni finirà inevitabilmente per assomigliare a una visita al sacrario militare sul Monte Grappa. La prima cosa nela quale si imbatte un visitatore straniero è la massiva presenza della stampa, di osservatori internazionali, di personale e volontari di ONG varie.
Nel memoriale di Potočari centinaia di badili verdi sono ammucchiati accanto ad altrettante fosse nel terreno. L’identificazione dei corpi non è ancora terminata a vent’anni di distanza: c’è chi si batte per avere qualche osso e un brandello di tessuto a cui dare un nome e su cui piangere. I corpi riconosciuti durante l’anno arrivano da Sarajevo la notte precedente, le centinaia di bare ricoperte da tessuto verde vengono messe nella scuola, quella che fu il luogo di reclusione dei deportati.
Il giorno successivo vengono portate in silenzio all’interno del memoriale, poi le urla e i pianti delle donne, che si sostengono tra loro, mentre decine di fotografi mitragliano coi loro flash e le gru delle televisioni portano le telecamere proprio sulla testa dei parenti: è incredibile vedere l’impatto mediatico che ha ogni singola lacrima versata a Srebrenica e ritrasmessa in diretta al pianeta. Immediatamente il pensiero va a tutti i morti di quella sanguinosa guerra, dimenticati dall’informazione e dalla politica. Ci ricorderemo un giorno anche di loro?
C’è chi arriva con i pullman gratuiti messi a disposizione dal comune di Sarajevo, con pranzo al sacco offerto e canzoni durante il tragitto che sembra una vacanza aziendale; c’è chi organizza alloggi notturni per gli stranieri o imbastisce banchetti con roba da mangiare lungo la strada tra Srebrenica e Potočari, facendo forse l’unico guadagno dell’anno, ci sono giornalisti e diplomatici, spesso annoiati, che parlottano tra loro.
Solo quando l’occhio riesce ad abituarsi a tutta questa baraonda, finalmente, vede emergere tra la folla i disperati, i parenti, i figli, accasciati al suolo in lacrime, con i crampi allo stomaco, le facce paonazze martoriate dal dolore. È come se fosse una pagina della storia che viene tenuta chiusa in un angolo tutto l’anno e che esplode il giorno in cui tutti si ritrovano qui.
A Srebrenica il dolore non è dimenticato, convive fianco a fianco al grande circo mediatico. Da noi probabilmente avrebbe tutto un’aria molto più ufficiale e pomposa, ma chissà se riusciremmo a lasciarci l’anima come accade qui. Sui Balcani invece la storia e il presente s’intrecciano e si abbracciano, da queste parti si parla ancora della battaglia di Kosovo Polje del 1389 come se fosse avvenuta ieri, figuriamoci quanto poco contano vent’anni da Srebrenica.
Eppure, questi vent’anni sono passati e la federazione bosniaca è sempre più lacerata dalla crisi economica e preda dalla corruzione politica, tenuta insieme dagli accordi di Dayton che sembrano cerotti su ferite sanguinanti. Tra Istočno Sarajevo e Sarajevo c’è una linea di frontiera invisibile, eppure ancora tangibile.
Il monte Trebenic, uno dei simboli di Sarajevo prima della guerra, è un luogo dove ancora molti non vogliono metter piede. Le cause che portarono al conflitto restano ancora poco chiare, quale fu il ruolo dei mass media e degli accademici dopo la morte di Tito? Perché televisioni e giornali aizzarono il popolo a massacrarsi dando una risonanza esagerata a qualunque piccola violenza, quando non inventandola di sana pianta? E l’influenza delle due superpotenze? Alla ricerca della verità sono passati vent’anni, vent’anni di niente.
Una storiografia ufficiale e condivisa non esiste ancora e non sembra vicina. Eppure, segnare e contare i vent’anni passati è anche un mezzo per guardare verso il futuro, o con una concessione alla fantasia, immaginare cosa ne sarebbe oggi della Jugoslavia, se la guerra non l’avesse dissolta.