Dove hanno perso tutti quelli che avrebbero avuto le ragioni per non farlo
di Francesca Rolandi
Si è chiusa la cerimonia per il ventennale di Srebrenica e quello che è apparso sui grandi titoli dei giornali è stato il lancio di pietre e oggetti contro il premier serbo Aleksandar Vučić.
Se partendo da questo spunto si volesse fare un bilancio della regione a due decenni dal massacro di Srebrenica sarebbero in molti a perdere.
Perdono innanzitutto le famiglie delle vittime, le quali dovrebbero essere protagoniste della commemorazione – che non è una commemorazione ma attualità perché ancora nel 2015 sono state seppellite vittime di venti anni prima. Hanno perso, come ogni anno, perché sono passate in secondo piano rispetto ai giochi della politica interna ed esterna alle entità e agli equilibri internazionali.
Perdono i timidi tentativi di riconciliazione, che sembravano aver preso vigore nella regione alcuni anni fa e che si sono trasformati in formule vuote per accontentare i funzionari Ue. In Serbia oggi si vuole rimuovere la memoria del genocidio di Srebrenica in una relativizzazione che spinge la soglia del lecito sempre più in là. In Croazia è molto difficile mettere in discussione la narrazione gloriosa della “guerra patriottica” e in Bosnia Erzegovina, il paese che più è stato vittima della guerra, non si riesce ad affrontare il tema dei crimini commessi a danno della popolazione serba.
Perdono i traballanti rapporti tra due paesi, turbati da ulteriore materiale infiammabile che porta acqua al mulino di chi fa politica con gli stessi slogan degli anni ’90.
Perdono le autorità bosniache che forse, se davvero si è trattato di hooligan venuti da fuori, avrebbero potuto evitare l’incidente.
Perdono coloro che da profughi e con enorme coraggio sono tornati nelle proprie case sebbene queste non si trovino più dalla “parte giusta”; nuove tensioni non fanno altro che rendere più difficile la loro situazione di nuovi estranei nella terra in cui sono nati.
Perdono le nuove generazioni che crescono in un clima di odio e incomunicabilità con chi vive a pochi chilometri di distanza.
Perde chi avrebbe voluto contestare la visita del premier serbo con le parole e non con il lancio di oggetti. Forse quello non sarebbe stato il luogo adatto, ma la contestazione verbale è legittima nei confronti non di un rappresentante del popolo serbo, ma di chi negli anni ’90 sposò la linea dei responsabili del massacro.
Vince in primo luogo Vučić che si può permettere di recitare la parte della vittima, rilasciando dichiarazioni concilianti anche dopo l’aggressione – “la mia mano ai bosgnacchi resta tesa” – mentre altri settori della classe politica serba spingono sull’accelleratore, accusando le autorità bosniache di essere state incapaci di tutelare il premier serbo da “un tentativo di omicidio”.
La stampa di Belgrado è partita all’attacco presentando lo spiacevole fatto come un attentato. E sotto silenzio, nella maggior parte dei casi sono passate le dichiarazioni di autorità politiche e religiose, in primo luogo il sindaco di Srebrenica, che hanno condannato fermamente l’accaduto.
Vince Milorad Dodik, padre padrone della Repubblica Serba di Bosnia che neppure quest’anno era presente alla cerimonia e la cui linea dura esce sicuramente rinforzata.
Vince Naser Orić, arrestato in giugno in Svizzera per una decina di giorni su mandato serbo e successivamente rilasciato. Il comandante dell’Armija durante la guerra è ormai considerato un difensore del popolo bosniaco sebbene sul suo passato gravino diverse ombre – non solo quelle per le quali fu sotto processo a L’Aia per crimini contro i civili serbi, dalle quali fu poi assolto – ma quelle che circolavano sul suo conto anche da parte bosgnacca per il suo abbandono di Srebrenica prima della caduta.
Vincono in generale nella regione la maggior parte dei responsabili dei crimini di guerra, che camminano ancora liberi per le proprie città natali e incontrano le loro vittime.
Vincono coloro a cui fa comodo lo status quo di una Bosnia Erzegovina saccheggiata, piagata dalla povertà, dalla corruzione e dal clientelismo di clan politici che conducono le politiche in difesa del proprio gruppo nazionale.
Perde la popolazione che, in particolare in Bosnia Erzegovina, vive molto male in entrambe le entità, vittima della storia recente e del proprio presente.
Se le ricorrenze hanno un senso, e viene da dire che probabilmente no, ma se ce l’hanno, che i prossimi vent’anni per la regione siano migliori di quelli che ci siamo lasciati alle spalle.