Quando il processo mediatico si sostituisce a quello reale

Quando e come è possibile distinguere la verità processuale da quella mediatica?

di Flavia Zarba
tratto da IRPI

“Secondo me è lui il colpevole”, “ma no che dici, non può essere lui”. Dall’omicidio di Chiara Poggi (Garlasco) a quello del piccolo Samuele Lorenzi (Cogne), dalle indagini sulla morte dei due fratellini Francesco e Salvatore Pappalardi (a Gravina di Puglia) al caso Meredith (Perugia). E poi, ancora, dalla strage di Erba al delitto di Avetrana fino al recentissimo omicidio di Yara Gambirasio siamo ormai diventati spettatori curiosi di una realtà processuale imbastita fuori dalle aule giudiziarie e dalle sue regole. Un processo mediatico che ci viene offerto ogni giorno sullo schermo alla ricerca di una sentenza che soddisfi le nostre aspettative e/o previsioni, una verità data prima dalla spettacolarizzazione mediatica che da un’aula di un tribunale. Si sa no, “only bad news are good news” che tradotto significa che un arresto fa molta più notizia di un’assoluzione e placa il dilagante giustizialismo dando finalmente nome e volto al “nemico pubblico”. Spesso i programmi alimentano la sete di notizie con immagini che ne travisano i contenuti a vantaggio del turismo dell’horror che alimenta la morbosità dei telespettatori.

Quando e come è possibile distinguere la verità processuale da quella mediatica?

La verità dei media e quella del processo hanno una qualità assai differente e guai a confondere questi due tipi di verità, entrambi necessari alla democrazia, ma che risultano utili al suo sviluppo solo se tenuti distinti nei ruoli e nelle funzioni: quando l’informazione, fraintendendo il senso della sua funzione sociale, si mette al servizio della giustizia si genera un mostruoso ircocervo che incrocia l’apoteosi del potere con l’ipnosi della gogna.

È quanto emerso dal convegno organizzato recentemente dall’Osservatorio Media e Processo dell’Unione Camere Penali Italiane che ha visti coinvolti in un acceso dibattuto docenti, giornalisti, avvocati e magistrati. Ha preso parte al convegno anche l’avvocato penalista francese Daniele Soulez Larivière autore di un testo divenuto famoso per aver indagato, per la prima volta, sui pericolosi intrecci fra giustizia penale e informazione coniando l’espressione definitoria “circo mediatico-giudiziario”.

“Mi accadde, sette anni or sono, di indossare una toga e di fare una dozzina di processi televisivi. Ma io scherzavo. Anzi, credevo di scherzare e ora non mi resta che chiedere perdono. Perché sapete tutti com’è andata a finire: le TV e i giornali la toga l’hanno indossata sul serio. Hanno preso lo scherzo in parola, esercizio tra i più crudeli, e hanno rovinato le nostre libertà. Ma quando un giornalista si traveste da giudice, e un giudice da giornalista, allora la base delle nostre libertà è non già incrinata o messa in mora ma letteralmente distrutta” dice Giuliano Ferrara nell’introduzione al libro di Daniel Soulez Larivière “Il circo mediatico-giudiziario”.

Chi sono gli esperti di casi e fenomeni criminali?

Ognuno cerca di dire la sua, indipendentemente dalle reali competenze. In prima linea criminologi e psicologi attraverso pareri e analisi spesso superficiali e scontati che rischiano di focalizzarsi più sulla colpevolezza di un individuo che sull’efficacia delle indagini in corso o sulle specifiche competenze criminologiche. Quasi un ritorno a Lombroso l’inventore dell’antropologia criminale che, dagli occhi o dai lineamenti, riusciva a comprendere gli indici criminogeni della persona. Oggi si fa, in tv, un esame molto simile strumentalizzando qualche gesto o e risalendo all’assassino attraverso le parole o semplicemente la grafia.

Ma che cos’è la prova documentale e quale il confine?

“È consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante fotografia, cinematografia, fonografia o qualsiasi altro mezzo. Quando l’originale di un documento del quale occorre far uso è per qualsiasi causa distrutto, smarrito o sottratto e non è possibile recuperarlo, può esserne acquisita copia” recita l’art. 234 del codice di procedura penale precisando che “è vietata l’acquisizione di documenti che contengono informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo o sulla moralità in generale delle parti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e dei periti”.

Che valore ha la consulenza tecnica d’ufficio?

La Suprema Corte si è espressa sulla rilevanza della consulenza tecnica d’ufficio (ctu) definendola come

“un mezzo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico – scientifiche, e non un mezzo di soccorso volto a sopperire all’inerzia delle parti. La stessa, tuttavia può eccezionalmente costituire fonte oggettiva di prova, per accertare quei fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di un perito”.

In altri termini, la consulenza tecnica d’ufficio concernente un peculiare aspetto scientifico quale è la grafia non può sostituirsi ad un effettivo contraddittorio probatorio da svolgersi nel giudizio, né tantomeno essere l’unico appiglio per una sentenza mediatica.

Che differenza c’è tra perizia grafologica e calligrafica?

Nell’indagine grafologica l’attenzione viene posta sul gesto grafico, considerato quale processo dinamico e complesso, non solo sulle forme delle singole lettere come avviene nell’indagine calligrafica. L’obiettivo dell’indagine grafologica è quello di stabilire se un determinato soggetto, tenuto conto delle specifiche capacità grafomotorie sia in grado di modificare la propria scrittura fino a realizzare una grafia compatibile con quella oggetto di accertamento.

Un esempio eclatante

Nel caso di Avetrana, dall’intensità e dalla combinazione dei segni lasciati sul foglio da Michele, la ctu ha visto “un soggetto suggestionabile, pronto ad accogliere le tesi altrui, dipendente dal condizionamento di persone a cui è emotivamente ed affettivamente legato o che ritiene più autorevoli, motivato in ogni azione dal bisogno di essere accettato, dedito al sacrificio e capace di compiere atti eroici al solo fine di ottenere stima e approvazione”. La perizia grafologica non dovrebbe mai finire nel “tritacarne mediatico” per diventare bandiera tra innocentisti e colpevolisti capaci di distorcere il contenuto di una perizia arrivando a conclusioni spesso affrettate.

Il grafologo può intendere dunque la colpevolezza dalla scrittura?

I grafologi possono segnalare un malessere, qualcosa che deve essere precisato in altri modi, ma che non va. Il dialogo tra psichiatria e scrittura, iniziato nell’ottocento all’insegna di grandi speranze, non è infatti una mera disillusione. In una prospettiva fenomenologica volta ad affermare la centralità del paziente per la sua esperienza umana, la psichiatria e la grafologia devono ritrovarsi in un progetto comune: sostituire alla spiegazione dei sintomi come fenomeni biologici, la comprensione del loro ruolo all’interno della personalità. È importante una precisazione: non bisogna confondere la perizia grafologica con la mera grafologia. Entrambi sono strumenti che analizzano e interpretano la scrittura mettendo in luce la personalità del soggetto scrivente ma solo la prima ha rilevanza probatoria. La grafologia, tanto utilizzata in tv è invece esclusa nelle aule di tribunale dove solo una perizia grafica può accertare l’autenticità o la falsità di uno scritto.

Ha spiegato la giornalista Giovanna Sellaroli esperta grafologa e docente del Master in grafologia presso la Luiss Guido Carli.