foto di Maria Novella De Luca e Valerio Nicolosi
L’ondata di razzismo che stiamo vivendo in Europa non ha intenzione di scemare, anzi, i segnali arrivati nelle ultime settimane sono sempre meno incoraggianti.
Circa due settimane fa la maggioranza governativa ungherese ha approvato un emendamento alla legge nazionale sull’immigrazione, che di fatto limita la possibilità di richiesta d’asilo e prevede il rimpatrio forzato oltre che l’installazione di una rete con filo spinato lungo il confine con la Serbia.
Proprio ieri sono iniziati i lavori per la costruzione di questa nuova prova di forza di un paese membro dell’Unione Europea contro un flusso di persone inarrestabile che arriva da paesi in cui le guerre sia interne che esportate dai paesi occidentali distruggono ogni prospettiva di vita.
L’UNHCR pochi giorni fa comunicava che, nel primo semestre del 2015, 137.000 persone hanno attraversato il Mediterraneo sperando di arrivare in Europa, principalmente in Italia e Grecia. Mentre in Ungheria il flusso è di circa 67.000 persone provenienti principalmente dall’Afghanistan.
Nonostante si parli di numeri record basta fare un confronto con la popolazione europea per capire che sono cifre quasi irrisorie se tutti i paesi membri dell’Unione Europea si facessero carico dell’accoglienza.
La fortezza Europa così avrà un nuovo muro dentro cui chiudersi, dopo le recinsioni di filo spinato di Ceuta e Melilla e la barriera naturale del mare nostrum che sarà pattugliato da una nuova missione militare europea sotto il comando italiano con cinque navi militari e due sottomarini per il controllo delle frontiere, anche a Est saremo protetti contro le “invasioni barbariche”.
Purtroppo a volte i governi hanno pessima memoria e poca conoscenza della storia. Sarebbe bastato sapere che la Grande Muraglia Cinese nonostante gli oltre 21.000 chilometri non è servita a contenere l’invasione dei mongoli.
Anche dall’altra parte dell’atlantico le masse migratorie premono verso i paesi ricchi.
Una storia molto simile è quella del muro tra Stati Uniti e Messico, che ha la funzione di bloccare le centinaia di migliaia di migranti provenienti da tutto il Centro America e che i messicani hanno ribattezzato “il muro della vergogna”.
Iniziato a costruire nel 1994 questa barriera di chilometri e chilometri di lamiera alta dai 2 ai 4 metri, illuminata anche di notte e che la polizia di frontiera statunitense pattuglia constantemente e ha visto morire, tra il 1998 e il 2004, poco meno di 2.000 persone ed è solamente il tratto finale di un lungo percorso che inizia nei paesi centro americani e che passa attraverso altre frontiere a loro volta militarizzate.
Una di queste, forse la peggiore per come è stata concepita è la fontiera di Hidalgo in Chiapas, che divide il Messico dal Guateamala.
Pochi chilometri prima percepisci che qualcosa sta cambiando rispetto alla confusione allegra delle città poco più a nord. In entrambi i sensi di marcia qualsiasi mezzo di trasporto viene fermato più volte, la polizia di frontiera messicana fa scendere gli automobilisti dei mezzi privati e sale a bordo dei pullman pubblici. A ogni persona vengono chiesti documenti e vengono controllati gli effetti personali.
La tensione diventa palpabile a causa della caccia all’uomo messa in atto dal governo messicano.
Nonostante questo la cittadina di Hidalgo è la tipica città di frontiera, negozi, case, chiese e il commissariato. Piccoli negozi che vendono di tutto, dalle patatine in busta ai palloncini.
Quando arrivi alla frontiera hai l’impressione di essere entrato in una caserma in un luogo di conflitto. Reti e tornelli ovunque, telecamere che ti sorvegliano a ogni angolo, militari armati che controllano a vista chi passa, tassa di ingresso e di uscita, tutto questo è amplificato se vieni da sud e sei cittadino di un paese considerato più povero del Messico. Tutta questa sicurezza ha lo scopo di fermare l’immigrazione clandestina dei paesi a sud del Messico.
La frontiera legale ricalca una frontiera natuale, il fiume Suchiate divide i due stati e quindi si deve passare all’interno di un ponte completamente chiuso da una gabbia metallica mentre sotto appare quello che non ti aspetti.
Un via vai di persone che attraversano il corso d’acqua, e quindi la frontiera, organizzati con delle piccole zattere improvvisate con camere d’aria dei tir e tavole di legno, trainate a mano nel fiume così basso che arriva appena sopra le ginocchia.
C’è un flusso di persone e merci che fa impressione, almeno il doppio rispetto a quelle che transitano per il ponte “legale”. Come se fosse un mondo a se stante, come se il ponte sopra le loro teste non esistesse. Traghettatori, facchini e bambini che giocano nell’acqua, il fiume appare pieno di vita e così lontano da quella caserma vista in precedenza. “El paso del Coyote” si chiama ed è il punto di passaggio di migliaia di persone che non hanno i documenti e che provano a raggingure il “muro della vergogna” per cercare una vita dignitosa.
Complessivamente ogni anno circa 500.000 centroamericani attraversano il Messico e provano ad arrivare negli USA e la frontiera “illegale” di Hidalgo è tra le più utilizzate.
Sulla sponda del fiume non si incontra astio, tutto scorre normalmente e anche rispondere a qualche domanda non è un problema. «Sopra non mi avrebbero mai fatto passare, questa è l’unico modo», dice Domingo, guatemalteco di 45 anni e 6 figli a casa. «Faccio il bracciante per la stagione ma in Messico posso guadagnare di più quindi vengo qui per la raccolta del caffè e poi torno a casa».
Per chi vuole arrivare negli USA la prima tappa dopo Hidalgo è Tapachula, città caotica e poco sicura ma soprattutto luogo da dove parte “la bestia”, il treno merci che attraversa il Messico da sud a nord e ribattezzato così perchè ogni anno inghiotte migliaia di persone che spariscono nel nulla o che ne escono con ferite e mutiliazioni.
«I problemi veri sono qualche chilometro oltre la frontiera dove la polizia cerca le persone senza i documenti in regola. A me non interessa restare in Messico, voglio arrivare negli USA, trovare un lavoro e farmi raggiungere dalla mia famiglia”. Mireia 35 anni e 4 figli ci racconta come già in passato abbia «provato ad andare negli USA ma sono stata arrestata e rimpatriata dalla polizia messicana. Io vengo dal Salvador e con noi centro americani sono molto razzisti, ci considerano inferiori».
Le storie sono diverse come sono diversi i percorsi che intraprendono. Honduras, Guatemala, Salvador, Nicaragua oltre che Messico stesso, si migra da ogni angolo del Centro America per cercare di realizzare quel sogno americano di avere un lavoro, una famiglia e una dignità.
Spesso si scappa anche dalla violenza, la condizione della donna in America latina spesso è drammatica e anche durante il viaggio si rischiano violenze e rapine.
A bordo de “La Bestia” i narcos spesso prendono in ostaggio i migranti chiedendo riscatti che variano dai 1000 ai 3000 dollari da far pagare ai familiari entro pochi giorni altrimenti verranno uccisi e gettati nelle fosse comuni. Solo nel 2010 sono stati 9.700 i migranti rapiti e tenuti in ostaggio.
Ad Hidalgo però tutto questo non sembra interessare, la necessità di migrare e cercare un lavoro è più forte dei possibili arresti o delle violenze.
«Il flusso è continuo, giorno e notte. Trasportiamo persone e merci, per noi è un lavoro come un altro. Se volete per 20 pesos messicani vi porto sull’altra sponda», racconta Antonio, 25 anni messicano e traghettatore della frontiera che non c’è.
Difficile quindi pensare che l’ennesima rete o l’ennesimo muro issato a difesa del benessere dei paesi ricchi possa fermare le masse migratorie spinte da guerre e povertà.
Questo l’Italia dovrebbe saperlo in quanto popolo di poeti, eroi, navigatori e trasmigratori. A volte però la memoria è troppa corta e il benessere l’accorcia ancora di più.