La Tunisia e il miraggio del turismo: di falsi miti non si campa

Se considerare il turismo come settore chiave dell’economia tunisina è un falso mito, le politiche governative per sostenerlo sono da 50 anni insostenibili. A pochi giorni dall’attacco di Sousse, ecco che il ministero del Turismo annuncia nuove misure per rilanciare il settore. Fallimentari a priori, diseguali e ingiuste

di Debora Del Pistoia, da Tunisi
tratto da Osservatorio Iraq

Dall’attacco del Museo del Bardo la retorica dominante sui media di mezzo mondo ricordava che la prima vittima di questo evento brutale sarebbe stato il settore turistico tunisino. Se già questo messaggio risuonava forte nel mese di marzo, quando ancora molteplici erano le interpretazioni su chi fosse effettivamente il target dell’attentato, oggi i fatti dell’hotel Marhaba di Sousse non lasciano dubbi.

In maniera diretta ed esplicita ad essere colpiti sono lo Stato ma soprattutto il turismo. Settore sensibile e fiore all’occhiello dell’economia tunisina, sviluppatosi con contraddizioni evidenti e politiche suicide sin dai tempi dell’indipendenza dettate dall’interesse del consenso. Oggi più che mai divenuto un fardello con conseguenze dirette o indirette sui differenti settori dell’economia.

Se il considerare il turismo come settore chiave e motore dell’economia tunisina è già di per sé un falso mito, le politiche governative per sostenerlo sono da ormai 50 anni surreali e completamente insostenibili.

A pochi giorni dall’attacco di Sousse, ecco che il ministero del Turismo annuncia nuove misure per rilanciare il settore. Nuovamente misure fallimentari a priori, diseguali e ingiuste, che promuovono disparità di trattamento e violazione del diritto delle regioni interne di avere le stesse opportunità di sviluppo.
Sin dalla fine degli anni ’60 la Tunisia ha sviluppato una politica turistica aggressiva e mirata a promuovere gli investimenti privati esteri nel settore, una politica di sviluppo concentrata solo in alcune aree ben precise del paese e con una narrazione che riposava quasi esclusivamente sul “miracolo economico”.

Proprio sulla base di quest’impostazione, il turismo è diventato fin da subito una delle bandiere dello sviluppo nazionale, in qualche modo anche un contributo per costruire la reputazione internazionale del paese come ”democrazia aperta e liberale”, la cartolina da sogno che i due regimi succedutisi dopo l’indipendenza hanno promosso tramite la propaganda dentro e fuori le frontiere nazionali.

Uno dei meccanismi di assoggettamento del popolo e di esercizio concreto del potere si esercitava proprio attraverso le politiche economiche che vedevano nel settore turistico il suo fulcro.

E attraverso un processo che mirava a promuovere una mutua dipendenza tra dirigenti e “dittatoriati” e una legittimazione del regime autoritario. Come ben descrive Béatrice Hibou in “La forza dell’obbedienza”, attraverso la promozione del turismo si esercitavano i dispositivi economici di potere che hanno reso la costrizione indolore, l’obbedienza “naturalmente” accettata e la servitù “volontaria”.

Nonostante i cambiamenti avvenuti dopo la rivoluzione nel 2011, la continuità sembra prevalere, in quanto a persistenza del modello turistico e a rappresentazione del turismo tunisino come pilastro del lungo processo di cambiamento.

In realtà, ad oggi, quel che sembra chiaro è proprio il ruolo delle politiche turistiche nella costruzione di una spirale infernale di disparità sociali ed economiche, costruite con la compiacenza internazionale dei creditori e dei paesi “esportatori” di turisti

Il modello di sviluppo turistico in Tunisia è in sé pieno di contraddizioni e debolezze, oltre che in buona parte responsabile delle diseguaglianze regionali, del regionalismo e delle discriminazioni esistenti nel paese. Ad essere snodo geografico cruciale di questo ingranaggio è la famosa costa d’oro di appena 120 km, quella che da Hammamet arriva fino a Monastir – non a caso città natale del Presidente Bourguiba, che per primo ha dato avvio all’eldorado turistico – passando da Sousse, già teatro di un tentativo di attentato kamikaze nell’ottobre del 2013.

Senza dimenticare Gammarth, quartiere avveniristico e artificiale della capitale. Uno sviluppo i cui frutti sono concentrati nelle mani di un’élite borghese e “modernista”, che lascia ben poche risorse al paese, e monopolizzato da compagnie multimilionarie straniere poco interessate alla sostenibilità del territorio soprattutto se non stimolate da politiche adeguate.
In queste zone turistiche da sogno c’è di che restare a bocca aperta per la diversità imposta di usi e costumi rispetto al resto del paese, dove una birra en plein air non è considerata reato per cui rischiare la prigione, né un bikini new age sulla spiaggia bianca di fronte agli hotel all inclusive è sufficiente per essere tacciati di miscredenza.

Un turismo di massa che si è instaurato a discapito della popolazione locale, imponendo costumi occidentali e favorendo la creazione del falso mito del benessere, radice motivazionale dell’esodo verso la sponda nord del Mediterraneo che ormai da vent’anni ha una crescita esponenziale.

Sousse in particolare rappresenta tutta la contraddizione di questo modello turistico surreale e del favoritismo regionale. Luogo chiave dell’ambizioso programma autoritario di Ben Ali, che mirava a rilanciare l’economia nazionale in crisi dagli anni ’80 con un’ottica di “modernizzazione” forte e di riforme, in cui il turismo era considerato settore bandiera. Il secondo risultato atteso era quello invece di sostenere un patto sociale forte che bloccasse le rivendicazioni degli alleati politici chiave del regime, il sindacato unico UGTT e l’unione degli industriali, l’UTICA.

In maniera progressiva, i meccanismi di controllo della popolazione si sono radicati nelle relazioni di potere più banali: sfruttamento di opportunità economiche, ricerca di promozione sociale, massimizzazione delle risorse finanziarie, accesso al credito e al consumo.

Giochi del potere che sono stati a servizio della punizione o della gratificazione, ma assicurando comunque una sicurezza economica e sociale, in una logica paternalista top-down. In una dimensione in cui l’esercizio della repressione è efficace solo in ragione della sua inserzione nel quotidiano e in cui il funzionamento economico quotidiano partecipa simultaneamente dei meccanismi di dominazione.

Con l’imporsi del credo neo-liberista espresso dal programma del “Consenso di Washington”, anche la Tunisia è risucchiata dalla spirale dei piani di aggiustamento strutturale promossi dall’FMI e dalla Banca Mondiale a partire dal primo nel 1986. Sarà quindi nei primi anni ’90 che verranno avviate fedelmente riforme economiche e privatizzazioni di massa, che coinvolgeranno svariati settori dell’economia tunisina. Il turismo, iscritto nella lista delle priorità, viene toccato parzialmente, tanto che il modello di sviluppo è rimasto essenzialmente lo stesso dagli anni ’70 ad oggi.

Secondo il rapporto 2015 del World Travel and Tourism Council (W.T.T.C.) e gli studi settoriali connessi, si stima che il settore del turismo costituisca il 7,4% del PIL nel 2014 e impieghi 473 mila individui, ovvero il 13,9% dell’impiego nazionale, tra cui 239 mila impieghi diretti tra hotel, agenzie di viaggi e società di trasporti aerei e terrestri.

Tutti dati legati alle attività ufficiali, a cui aggiungere il lavoro sommerso. In termini puramente numerici, il settore rappresenterebbe la seconda fonte nazionale di entrata di valuta. Ma al di là di questi dati, che non danno ragione della ridistribuzione di questa ricchezza, merita ricordare che l’investimento turistico del regime ha toccato in modo arbitrario e parziale le diverse regioni del paese, oltre a proporre un modello poco sostenibile perché focalizzato sulla stagionalità – la stagione estiva – e sul richiamo dei turisti alle spiagge paradisiache della costa est, il Sahel, con scarsa attenzione per la preservazione del territorio e dell’ambiente, oltre che a discapito dei costi sociali rilevanti.

Dall’ascesa al potere, Ben Ali ha rafforzato questo approccio e utilizzato il turismo come strumento per rendere saldo il suo potere personale, attraverso l’afflusso importante di capitali stranieri nel Sahel, di cui Sousse è considerata la capitale economica, “trascurando” le regioni interne ricche di patrimonio naturale, archeologico e storico.

Con un sistema di clientelismo e corruzione basato sulle relazioni con i proprietari delle strutture turistiche, incentivati a proporre un’offerta low cost e in primis mirata ai visitatori stranieri, e l’UTICA. Nonostante il peso strategico riposto dal regime su questo settore, lo stesso da molti anni soffre altresì di problemi infrastrutturali gravi e che i vari intervenenti non sono riusciti a risolvere.

Da un lato la visione tradizionalista e poco critica dei vari responsabili, dall’altro l’assenza di professionalismo e talvolta di serietà di certi imprenditori, spesso legati da relazioni clientelari con il regime. E’ il profilo della stessa Zohra Driss, proprietaria dell’hotel Marhaba di Sousse, rappresentante dell’establishment liberal-borghese ed eletta del partito Nidaa Tounes. Una perfetta self-made woman, com’è stata definita.

Con una progressione negativa negli ultimi anni, questi aspetti sopracitati si riflettono fino ai giorni nostri direttamente nella scarsa diversificazione dei prodotti, nella regressione significativa in termini di qualità dei servizi e nel dominio degli investitori stranieri attraverso catene turistiche internazionali, agenzie di promozione e tour operator. Un sistema che per sostenersi è caratterizzato dall’assenza di solidarietà e cooperazione tra gli attori locali coinvolti, spinti alla concorrenza spietata per proporre la miglior offerta nell’ottica del basso costo, a discapito di qualità del servizio e dei “costi sociali”.

Questa pressione sui prezzi si gioca sul ruolo dei tour operator, definiti “macchine da guerra”, e sulle loro relazioni di partenariato con gli albergatori locali totalmente squilibrate.

I primi non cessano di minacciare la concorrenza di altre destinazioni, spingendo gli albergatori ad accettare il diktat basato su tre punti: proporre servizi di qualità sempre più mediocre, rivedere le politiche salariali e non rimborsare i debiti contratti con le banche e lo Stato. Facendo di tutto per incitare l’albergatore a rinunciare ad una parte del prezzo.

A perderne sono i diritti dei lavoratori, spesso provenienti dalle regioni interne caratterizzate da tassi di disoccupazione disarmanti, laddove non solo non si sono accesi i riflettori sul turismo ma nessun tipo di sostegno all’impresa é stato appoggiato da parte dello Stato.

E rinforzando dunque le fila di chi é disposto ad impegnarsi in lavori stagionali sottopagati, che i giovani della zona rifiutano. Con un modello basato su salari stagnanti e spesso al nero, incapace di riassorbire la manodopera qualificata o comunque di valorizzarla, un insieme di fattori che incitano il moltiplicarsi di conflitti sociali. Il tutto avviene in un clima che riproduce artificialmente uno stile di vita “occidentale”, lontanissimo e inimmaginabile per un giovane dell’interno del paese, ma da accettare come conditio sine qua non essendo l’unico target il turismo europeo o comunque non tunisino.

L’utilizzo dei prestiti di banche – private e pubbliche – e dello Stato invece ha creato un effetto devastante sull’economia tunisina. Dal 2009 è in aumento il tasso di prestiti non rimborsati, in un’economia basata essenzialmente sull’indebitamento affidato al settore bancario.

Aspetto importante, soprattutto considerando che le banche tunisine, in gran parte privatizzate, restano tra le più indebitate al mondo, fattore che indebolisce la loro capacità di finanziare lo sviluppo del settore turistico e alberghiero per allinearsi alla “concorrenza internazionale”, in primis quella di Marocco e Turchia. Inoltre, la mancata valorizzazione del potenziale turistico e delle alternative sostenibili fa del turismo ad oggi il primo settore in quanto a sovraindebitamento, difficoltà di pagamento e insolvenza.

Il debito dello Stato è quindi aumentato di conseguenza e non è più all’altezza di provvedere ai bisogni della popolazione. Un esempio lampante è la fine del sistema avviato da Bourguiba della de-indicizzazione del prezzo del pane e della farina, che fino al principio degli anni 2000 manteneva prezzi costanti per le materie prime. E quindi i prezzi volano e il mercato nero si impone.

Oltre all’instabilità politica del periodo post rivoluzionario, questo quadro è di per sé sufficiente a spiegare le ragioni della diminuzione della domanda internazionale negli ultimi anni e del fallimento del settore turistico secondo il modello che si era considerato strategico da parte del regime.

La formula di “modernizzazione” e “riforme”, in aggiunta alle politiche di privatizzazione, si sono rivelati solo slogan vuoti e utili ad attirare l’afflusso dei capitali stranieri e la fiducia degli attori economici internazionali. Afflusso di capitali che rappresentava il fulcro del potere di Ben Ali e della sua cerchia ristretta.

Una strategia suicida quella di affidare la stabilità economica del paese nelle mani degli investitori stranieri, liberi di diminuire in qualsivoglia momento le riserve di valuta del paese di origine.

Solo pochi giorni dall’attentato di Sousse, ed ecco un altro schiaffo alla dignità e alla speranza dei tunisini. Dopo le misure annunciate dal Primo Ministro e focalizzate sulla sicurezza a costo di una limitazione delle libertà, il 29 giugno la ministra del Turismo Selma Elloumi Rekik illustra una serie di provvedimenti eccezionali nell’ottica del rilancio del settore turistico e per superare la crisi sopravvenuta con il nuovo attacco.

Misure eccezionali e dallo spirito emergenziale, con soluzioni contestuali a corto termine, di scarsa visione, che non prevedono alternative ma rafforzano lo spirito delle politiche di sviluppo del turismo già dimostratesi fallimentari in passato e responsabili delle diseguaglianze. In piena coerenza con l’indirizzo di politica economica del governo.

Provvedimenti che oltretutto nel loro intervento puntuale di “salvataggio” delle imprese turistiche non fanno alcuna distinzione tra gli istituti seri e caratterizzati da una buona governance, rispettosi delle norme settoriali e degli impegni con i diversi partner finanziari anche rispetto allo sviluppo di migliori prodotti.

Per citare un paio di esempi che riassumano lo spirito delle decisioni, si tratta di disposizioni che in primis prevedono aiuti finanziari importanti e l’annullamento eventuale del debito settoriale, la riprogrammazione delle scadenza per il rimborso dei prestiti per il 2015 e 2016 e la previsione di nuovi crediti eccezionali rimborsabili entro il settimo anno, con i primi due anni di grazia con garanzia a carico dello Stato.

Si aggiunge la rinegoziazione dei crediti fiscali degli istituti turistici con la STEG, la società dell’energia elettrica, e la SONEDE, la società che gestisce la distribuzione dell’acqua. A questo si sommano agevolazioni fiscali consistenti, come la riduzione dell’IVA dal 12 all’8% per gli istituti turistici e la disposizione di visti multi-entrata per due anni a uomini d’affari e investitori provenienti da Cina, India, Iran e Giordania.

Si ribadisce la volontà di portare avanti politiche di sostegno già dimostratesi deboli e basate su vecchi paradigmi legati al neo-liberalismo puro e duro che poco fanno sperare su uno sviluppo equo e sostenibile.

L’apertura delle frontiere per determinate tipologie di investitori stranieri ribadisce altresì il principio per cui lo sviluppo si lega solo alla rincorsa ai capitali stranieri, come se l’esperienza non avesse insegnato che questo tipo di investimenti creano solo impiego precario e sottopagato e non permettono di reinvestire i profitti sul territorio, restando nelle mani delle compagnie straniere che rimpatriano i capitali o nelle mani delle élites tunisine.

Un’occasione persa per annunciare uno studio serio sul settore turistico e sul contributo dei vari attori legati direttamente o indirettamente al settore, ma soprattutto orientato a costruire una strategia di lungo periodo di promozione del turismo equa, alternativa e che valorizzi il territorio nel suo complesso, considerato il grande potenziale di gran parte delle regioni tuttora completamente trascurato e calpestato.

Oggi sarebbe urgente programmare una valutazione obiettiva e indipendente sulla redditività del settore, sulla gestione dei costi e dei vantaggi comparati e che sarebbero supportati dalla collettività per la promozione del turismo. L’interesse nazionale suggerisce che si adotti un piano di azione di ristrutturazione settoriale e si promuova un modello alternativo di sviluppo inclusivo nella sua duplice dimensione nazionale e regionale, in maniera partecipata e concertata con tutti gli intervenenti.

Un modello che valorizzi le risorse reali del territorio in modo equo e con la collaborazione dei e tra gli attori locali, riducendo la pressione del dominio straniero o elitario sul settore. Un modello che lasci un valore aggiunto sul territorio, sostenendo i progetti di turismo sostenibile che si stanno sviluppando nelle regioni dell’interno, quelle regioni completamente dimenticate dal ministero del Turismo e che da sole stanno lottando con le unghie per costruire una narrazione diversa della propria storia.

La regione del Nord Ovest, in primis, la più ricca in termini di risorse naturali e di potenziale eco-turistico. Infine un modello che vada di pari passo con il processo di decentralizzazione del paese che tarda ad arrivare pur divenendo sempre più necessario per dar voce e gambe agli esitanti passi che dall’interno del paese faticano a raggiungere l’attenzione del governo a Tunisi.

E’ indubbio infatti che anche nelle scelte economiche e nel modello di sviluppo si legga il paradigma dell’ingiustizia e la colpevolezza di un potere incapace di rimettersi in discussione per scegliere una via che faciliti l’unità nazionale a basso costo sociale. In un paese in cui la pace sociale è sempre stata un equilibrio imposto, mai una scelta.

E le differenze economiche, intellettuali, religiose, considerate delle anomalie e non una forza.

La piaga del radicalismo e della violenza nel paese non si sradicherà se non si interverrà sulle cause profonde della malessere, concentrate anche sulle diseguaglianze regionali e la marginalizzazione socio-economica.

Mentre il pericolo più eclatante viene identificato nel terrorismo, l’impeto della controrivoluzione che molti già avevano preconizzato in tempi non sospetti, nei primi mesi del 2011, continua a farsi spazio. Dopo l’annuncio dello stato di emergenza da parte del Presidente Essebsi il 4 giugno, ricordiamo le considerazioni riassunte negli scritti visionari dell’intellettuale Shiran Ben Abderrazak.

Tutti coloro che non vanno a fondo di una rivoluzione non fanno altro che scavare la fossa della libertà e preparare il trono del tiranno. Che questo tiranno sia un individuo o una casta, poco importa in fondo, quel che conta è la schiavitù”.