Anche quest’anno, al momento di scegliere una visione per affrontare il 20 luglio, si ragionava sugli anni passati. 14 anni. Come una/un ragazz@ che mediamente ne sa molto di tecnologia, che gira con lo smartphone, che è cresciuto con una percezione del berlusconismo al tramonto, anche se gli effetti dello sfascio culturale si faranno sentire a lungo. Una/un ragazz@ che, se vuole, ha gli strumenti per raccogliere la memoria, ma se non scava o non alza le orecchie rimarrà vittima del discorso comune, che oggi è assai povero. Noi ci siamo interrogati, una parte di noi ha consegnato in questo articolo delle parole.
di Angelo Miotto, Christian Elia, Gabriella Ballarini, Giulia Bondi,
Antonio Marafioti, Enrico Natoli, Gabriele Battaglia
Enrico Natoli: Buco nero
Angelo Miotto: compassione.
Compassione. Nel senso greco, da pathos, soffrire, emozionarsi, la parte irrazionale rispetto al logos. Perché l’assassinio di Carlo Giuliani, le botte in corteo, le torture e lo spregio dei diritti fondamentali quattordici anni fa mi porterebbero a scegliere ancora oggi rabbia, o vendetta e non c’è vergogna nel riconoscerlo. Ma scelgo compassione, per il messaggio politico di Genova, ucciso anch’esso da colpi di arma da fuoco e manganelli. Quando parliamo di un’Europa, di un mondo, diverso che parta dalla solidarietà, dal basso, dalle esigenze vere e comuni, parliamo di compassione, di soffrire o emozionarsi insieme. L’uomo al centro della politica, come in esperimenti belli e purtroppo caduti anch’essi in molte parti del Latinoamerica. Ma il messaggio è l’unico che può abbattere un sistema che si fonda solo sul far soffrire gli altri, cioè i subalterni, i sottoposti, i sudditi.
La nuova rivoluzione, se verrà, partirà dalla compassione. E Genova fu una vera rivoluzione stroncata militarmente, senza il coraggio, forse, di riprendere quel filo. Può sembrare strano, ma compassione è un vessillo da battaglia.
Christian Elia: paura.
Paura. L’esercizio della democrazia, che ne identifica allo stesso tempo il senso e la forma, si concretizza nella libertà di un gruppo di contestare le decisioni di coloro cui viene delegata l’amministrazione della comunità. Fossero anche decisioni della maggioranza. Le istituzioni devono lavorare a creare il clima migliore possibile perché qualsiasi parte della comunità, anche una minoranza, si senta libera di protestare. Se lavorano altresì a imporre un clima di terrore, che spinga i cittadini a non avere il coraggio di protestare, per la paura che possa accadergli qualcosa, le istituzioni vengono meno a uno dei patti che sono alla base della visione democratica della società.
Giulia Bondi: contraddizione
Contraddizione. Ho deciso di non andare, perché portavo le Adidas e avevo studiato fino al giorno prima i dogmi del commercio internazionale. Che era giusto andarci lo avrei capito dopo pochi mesi in Brasile, nei cortili assolati delle casette povere, bevendo cafesinho e refrigerante, gassosa senza marca più buona della coca cola.
Gabriella Ballarini: trappola.
Trappola. Vivevo a Genova, studiavo. Andai a fare un giro un paio di giorni prima per capire che cazzo voleva dire zona Rossa. E Genova, non c’era più, era tutta una barricata e i cancelli che dovevi attraversare e quelli lì che ti guardavano. Io pensavo che stavano costruendo una trappola e poi boh, tutto quello che ricordo è che dopo due giorni mi chiamò mio padre e per la prima volta in vita sua mi disse: ti prego, prendi un treno e vieni qui. Mentre Carlo moriva io scappavo.
Gabriele Battaglia: odio
Genova è odio. Quello sordo, implacabile, che dura da allora. Non puoi fare a meno di questo odio, non puoi ricorrere alla formula ipocrita per cui “odiare è male”. E allora devi farlo diventare costituente, produttivo, come l’amore spinoziano di cui è l’altra faccia. Devi portarlo nel mondo, avere sempre presente il volto del nemico, dove non arriva l’amore, arriva l’odio, passione altrettanto umana.
Antonio Marafioti: giustizia
Giustizia. Ne è mancata allora, ne è mancata subito dopo, ne manca attualmente rispetto a quei tremendi fatti del 2001. Si scrive fatti, leggasi realtà parallela. Perché Genova, quel tragico 20 luglio, non era Italia, non era 2001. Era, è stata resa, uno spazio privato dei più basilari, necessari, diritti civili. La sentenza di Amnesty International sulla loro sospensione, “la più grave dalla seconda guerra mondiale”, continua a inquietare ancor oggi. Dimenticare Genova, Ricordare Genova. Impossibile in entrambi i casi. Genova non si può dimenticare: troppe immagini, troppi video, troppi audio, troppe, davvero troppe, parole. Un documento su tutti: “Quale verità per piazza Alimonda?” , un’inchiesta di 33 minuti (ma gli ultimi cinque valgono tutto il lavoro) pubblicata in un dvd da Liberazione con immagini inedite e la voce di Giuliani, Giuliano, padre di quel Carlo ragazzo che a Genova fu assassinato, aveva 23 anni. Mario Placanica l’esecutore. Un altro ragazzo, successivamente abbandonato dai “suoi” in balia delle sue colpe e della sua depressione, sul quale si riversarono tutte le responsabilità del mondo, nonostante quel mondo, colpevole, se ne stesse nascosto dentro le mura dei grandi palazzi, dietro le sale di comando, all’ombra grigia di ordini di servizio e direttive ministeriali. Tutti colpevoli, tutti assolti, tutti finanche promossi. Dimenticare Genova è impossibile, dimenticare una giustizia dimenticata è addirittura impensabile. Perché ci sono documentazioni inoppugnabili di violenze di uomini (in divisa) perpetrate su altri uomini (con zaino e colazione al sacco); ci sono video ritraggono gruppi di carabinieri in tenuta antisommossa mentre prendono di peso manifestanti pacifici come fossero agnelli pronti per la macellazione. L’immagine è quattro contro uno. Un militare per arto. Ci fu una pietra usata per sfondare il cranio di Carlo, ragazzo, esanime, che secondo il piano (leggasi tentativo di depistaggio) iniziale avrebbe dovuto costituire prova del fatto che fossero stati i suoi compagni a ucciderlo. “Bastardi, lo avete ucciso voi”, gridò il celerino a un povero cristo davanti alle telecamere del tg5.
Impossibile ricordare Genova, perché il sangue diventa amaro, la pelle s’inspessisce, il fiato si fa corto e la testa inizia a muoversi a destra e a manca quasi come a voler cancellare fisicamente quelle immagini dal cervello. Carlo, la Diaz, Bolzaneto. Gli sputi in faccia, le umiliazioni al corpo, quelle alla dignità. Manganelli usati come prolungamenti fallici, ragazze con il ciclo mestruale lasciate nude sotto la doccia, una fu persino costretta a rimuovere il suo piercing dalla vagina. Impossibile ricordare Genova, soprattutto perché è una memoria che lascia solo ognuno di noi. Siamo tanti a ricordare Carlo e le altre vittime, siamo soli nel dolore dei pensieri e nell’offesa che la memoria iconografica ci arreca in quanto esseri umani. Eppur ci sono un danno e un oltraggio ancor più gravi, sono quelli inflitti alla Giustizia attraverso la sua mancata garanzia. Una ferita insanabile allo stato di diritto di questo paese. Un’Italia che agli occhi del suo popolo, prima, e del resto del mondo, poi, è stata resa simile, nella sofferenza, alla Pietà Rondanini, se non fosse per il fatto che a Genova di pietà n’è mancata totalmente. Così come è mancato lo Stato, la sua altezza morale, la sua equità, il suo più antico brocardo: “La legge è uguale per tutti”. A Genova la Giustizia morì al fianco di Carlo, solo che nessuno ha riconosciuto il suo corpo all’obitorio. Perché riconoscere quel corpo avrebbe comportato individuare assassini plurimi, e altolocati, e plurime ferite mortali: quel corpo fu sbattuto sulle barriere della zona rossa, squarciato da un colpo di pistola, calpestato da un defender con la scritta Carabinieri, vilipeso dentro la palestra di una scuola e l’infermeria di una caserma da sedicenti servitori dello stato, dai loro superiori e dai superiori dei loro superiori. “Fu tortura”, ha sentenziato la Corte di Stasburgo lo scorso aprile. L’Italia condannata dopo 14 anni. Gli italiani rei di aver ordinato e compiuto quel massacro, no. Come se si trattasse di un non luogo a procedere per crimini commessi in quello che, allora, fu veramente un non luogo. Un non luogo senza giustizia. Ecco perché oggi è impossibile dimenticare Genova, come è impossibile ricordarsi di lei.