di Costanza Pasquali Lasagni
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
“Gli esseri umani vivono la guerra allo stesso modo”, scrive Refaat Alareer nella sua introduzione della raccolta di racconti “Gaza writes back”, da poco tradotta in italiano. Una ventina di racconti di narrativa, scritti dai suoi migliori studenti di scrittura creativa, che lui ha raccolto e curato perché potessero superare i rigidi confini di Gaza e raggiungere oltreconfine altri esseri umani.
In una realtà dove l’esposizione a morte e violenza e disillusione è quotidiana, raccontare storie è un atto di vita. Non solo. È una reazione alla narrativa dominante dell’attaccante e dell’attaccato, della violenza come unico strumento di relazione, della rinuncia all’individualità per la causa collettiva.
“Noi palestinesi viviamo sotto due occupazioni”, raccontava ironicamente Su’ad Amiry, “quella israeliana e quella palestinese”, riferendosi alle logiche di ruoli e aspettative che ogni palestinese è chiamato a tenere in considerazione e che spesso oscura storie e vissuti individuali. Raccontare storie, nella migliore delle tradizioni letterarie arabe, gli hakawati, è anche, finalmente, un’azione, e non una reazione. È uno slancio vitale, un misto di realtà e speranza. Sarà per questo che la scrittura creativa è uno degli strumenti più usati nella formazione degli adolescenti in Palestina come tecnica di espressione e creatività. E uno dei più riusciti.
L’obiettivo è quello di rompere la chiusura emotiva, la chiusura logistica, culturale, fisica, mandando i racconti, tradotti in inglese, malese, italiano e giapponese, tanto per cominciare – e chissà, anche in ebraico, suggerisce Refaat via skype – e mutuare sentimenti universali come il lutto, il senso di colpa, la felicità, l’amore, la rabbia attraverso le storie individuali di ragazzi che si sono trovati a vivere una vita più grande di loro, a crescere in fretta, e che hanno avuto la forza di trasformare le loro esperienze in uno strumento di lotta del tutto pacifico e costruttivo. D’altronde, chi meglio dei palestinesi può raccontare la Palestina?
Leggere le pagine, una dopo l’altra, è una fitta al cuore: l’ esperienza della violenza, i sentimenti di ingiustizia, l’occhio ingenuo e sincero dei ragazzi, ma anche la profondità dei temi trattati, la capacità di andare a fondo nei sentimenti provati, nell’immedesimarsi in ruoli e situazioni diverse. È questa la capacità della narrativa.
Se i reportage giornalistici, asetticamente o quasi, presentano le notizie e i fatti in sequenza sterile, uno dopo l’altro, finché un nuovo fatto passa in prima linea, e poi un altro, e un altro ancora, la scrittura creativa rimane e permane, o, come spiega l’editore Lorusso, “con il suo portato umanistico e il suo fascino universale, riesce a toccare molte più persone, e non solo momentaneamente ma per i decenni a venire. La narrativa trascende il tempo, lo spazio e le opinioni.”
La vita rende umani, scrive Hanan, mentre Mohammed descrive nei dettagli un comune giorno di guerra. Sameeha racconta di una giornata alla clinica dell’UNRWA per avere degli antidolorifici contro il mal di denti, e rimane colpita da quante persone siano in attesa di assistenza medica. Si parla di dolore e dignità, di rispetto e di curiosità, si immagina una realtà differente, migliore, ci si mette nei panni del soldato israeliano, chissà come andrà a dormire la notte, e in quelli del ragazzo che prova a tentare la fortuna lavorando nei tunnel.
La realtà non lascia spazio a illusioni: il tunnel crolla, il missile arriva, i soldati arrestano e sparano. La rabbia per una situazione che costringe a “dover scegliere” se curare un anziano o un bambino, per dover scegliere tra sofferenza o sacrificio, se di scelta si tratta – o per non poter scegliere affatto – supera di gran lunga la rabbia per l’occupazione stessa, spiega Refaat.
Si arriva ad essere arrabbiati con se stessi, con la propria impossibilità e i propri limiti. Con le proprie emozioni. Con i propri sensi di colpa, che se da un lato straziano, dall’altra aiutano a tenere in vita persone e memorie tragicamente perse. L’occupazione è un’iniezione quotidiana di sfiducia, di rabbia, di violenza, di cinismo. Di sentimenti negativi che permangono e non lasciano altra soluzione. Ma chi ha detto che questa guerra vada combattuta con le stesse armi? È questa la grande lezione dei giovani scrittori.
Questi dubbi e questa sfiducia possono essere messi in discussione nel momento in cui ogni persona inizia a porsi delle domande. “E quando lo farà, arriveranno le risposte”, scrive Refaat. E allora gli studenti mettono in discussione non solo l’occupazione, la guerra, ma anche la loro stessa realtà, e, nel vero significato della frase, “dicono la loro”. Su una politica di aiuti che riduce gli esseri umani a numeri e beneficiari passivi. Su una narrativa dominante che li dà per disperati e a corto di risorse.
Niente poteva fermarci dal continuare a vivere, scrive Refaat, e infatti nulla lo ha fermato dal sostenere, sull’onda della positiva esperienza di “Gaza writes back”, la formazione di un collettivo di giovani scrittori gazani, chiamato “We are not numbers”, appunto, che ora si vedono pubblicati su differenti media indipendenti, come +972magazine.com e Mondoweiss, che usano blog e social media per rompere l’isolamento e raggiungere, con mezzi e linguaggi universali, e soprattutto moderni e comprensibili, loro coetanei – e non – nel resto del mondo. Altre mamme, altri padri, altre persone leggeranno le loro storie ed empatizzeranno con i personaggi. Le biografie degli scrittori stimolano impegno civico, spirito critico e una sorta di dovere morale per cui, come scrive Nour, “se una persona sa davvero scrivere, è suo dovere alzarsi e farlo per cambiare il mondo in qualcosa di meglio”. Il successo di questi ragazzi è una dimostrazione evidente di come, se esiste un enabling environment, ovvero un ambiente che permetta e stimoli la crescita individuale e collettiva, non sarà un blocco o tre guerre a fermare le speranze e il potere di questi ragazzi di attraversare confini o muri.
“Forse un giorno i nostri scritti tracceranno un sentiero verso la libertà”, scrive ancora Nour. D’altronde, resistenza è fare rumore, ricorda Refaat, in attesa da Gaza di poter uscire per completare il suo dottorato in Malesia, e, come scrisse Malcom X, “Se vuoi qualcosa, è meglio che fai un po’ di rumore”.