di Bruno Giorgini
Nell’avventura della vita sulla terra si sono verificate una miriade di estinzioni per molte specie. Soltanto cinque però, per quel che ne sappiamo, furono così devastanti da mettere a rischio la stessa continuità della vita – dai batteri ai mammiferi – le cosidette “Big Five”. Adesso ci sono indizi che siamo sulle soglie o già dentro la sesta estinzione.
Questo racconta Elizabeth Kolbert in uno splendido e utilissimo libro –LA SESTA ESTINZIONE, the sixth extinction – dal significativo sottotitolo: una storia innaturale. Non starò a tentare di riassumerlo, leggerlo vi immergerà in una avventura sia scientifica che umana, in un viaggio attraverso il mondo seguendo gruppi di ricercatori da Ischia all’Amazzonia, che palmo a palmo inventano metodi e accumulano tracce per definire e misurare l’avanzata della sesta estinzione, così come si misura il livello di un fiume che sta gonfiandosi per capire se e quando arriverà la piena che travolge gli argini dilagando nel territorio intorno. Soltanto che qui il territorio che può essere allagato dalla sesta estinzione è l’intero pianeta.
Questi ricercatori lavorano accampati in foreste o sui pendii di montagne, vivono di borse di studio, viaggiano in autobus, somigliano a una allegra e intensa brigata con colazioni al sacco, nonostante i risultati che pubblicano spesso su Nature non hanno niente a che fare con la Big Science quale vediamo dispiegarsi per esempio al Cern costruendo grandi acceleratori.
La scarsità dei loro finanziamenti è un indice di quanto i problemi che sollevano siano trascurati, eppure da loro possono, potrebbero, venire i contributi decisivi per affrontare il problema della sesta estinzione, il cui agente primario, o uno degli agenti più nefasti, portatore di estinzione potrebbe essere proprio la nostra specie, l’homo sapiens. Uno sterminatore di altre speci.
“Nel periodo di massimo splendore, ossia prima che l’uomo inventasse un modo per raggiungere le sue zone di nidificazione, l’alca gigante spaziava dalla Norvegia all’isola di Terranova e dall’Italia alla Florida: la sua popolazione probabilmente era quantificabile in milioni di esemplari.(..) Come osservò un cronista dell’epoca, l’alca gigante dell’isola di Funk veniva sfruttata in tutti i modi che l’ingegno uumano potesse escogitare (…)”.
L’alca gigante fu sterminata, oggi non esiste più, nei modi più crudeli, per giunta. Scrive un marinaio inglese “Se si è venuti fin qui per il loro piumaggio, non ci si prende la pena di ucciderli: basta afferrarne uno e strappare le piume migliori. Poi il povero pinguino (in realtà le alche sono tutt’altra specie rispetto ai pinguini, ma somigliano, ndr) viene lasciato libero, con la pelle seminuda e lacerata, a morire delle ferite riportate”.
Siamo nel 1800, data che viene assunta come segnalibro – marker – dello sterminio totale avvenuto, seppure l’ultima coppia di alche giganti fu uccisa nel 1844 sull’isola di Eldy.
Ma l’azione dell’homo sapiens si estende e rafforza man mano con lo sviluppo industriale e tecnologico, talchè oggi i ricercatori non a caso parlano di antropocene, a significare che siamo in un’epoca geologica dominata dall’uomo.
Paul Crutzen, premio Nobel per avere scoperto gli effetti della decomposizione della fascia di ozono, che ha inventato il nome antropocene, così configura questa azione dell’homo sapiens: “l’attività umana ha trasformato da un terzo a metà della superficie del pianeta, la maggior parte dei principali corsi d’acqua è stata arginata o deviata, le fabbriche di fertilizzanti producono più azoto di quanto ne venga fissato in natura da tutti gli ecosistemi terrestri, le industrie ittiche rimuovono più di un terzo della produzione primaria delle acque oceaniche costiere, l’uomo usa più della metà delle risorse accessibili di acqua sorgente al mondo.”
L’uomo è andato anche oltre alterando in modo significativo la composizione dell’atmosfera – per esempio la concentrazione di diossido di carbonio nell’aria è cresciuta del 40% dal 1800 a oggi, mentre la concentrazione di metano, un altro gas serra, è più che raddoppiata.
Sempre Crutzen: “a causa di tali emissioni antropogeniche è possibile che il clima globale si distanzi significativamente dal suo comportamento naturale per molti millenni a venire (sottolineatura mia)”.
Nel libro di Kolbert è possibile trovare tutti i numeri di questa modificazione antropica dell’atmosfera che genera il cambiamento del clima o riscaldamento globale che dir si voglia. Riscaldamento globale che porterà, con buona probabilità all’estinzione di un milione almeno di specie. Se vogliamo dirlo in termini più rigorosi, le cifre oscillano a seconda dei modelli, tra il 10% e il 32% di specie annientate per causa di riscaldamento globale. Miles Silman, ecologo delle foreste, la dice così: “Se l’evoluzione funziona allo stesso modo in cui ha sempre funzionato, allora lo scenario di estinzione – noi non la chiamiamo estinzione, ma parliamo di biotic attrition, una sorta di logoramento biotico, un simpatico eufemismo – ecco, comincia ad apparirci apocalittico”.
Come se non bastasse, essendo la mobilità e la migrazione una delle strategie principali adottate dai viventi per scampare all’estinzione locale, noi abbiamo costruito un mondo di barriere che rende sempre più difficile questa via di scampo. Per dirla con le parole di Kolbert “Una delle caratteristiche che definiscono l’Antropocene è che il mondo muta con modalità che obbligano le specie a spostarsi, e un’altra è che il mondo muta con modalità che generano delle barriere – strade, aree deforestate, città – che impediscono agli animali di migrare”, il che vale, aggiungo, anche per l’animale homo, basti vedere gli ultimi esempi a Ventimiglia, Calais e il muro di filo spinato eretto dallo stato ungherese alla frontiera con la Serbia. Se vogliamo con altri termini, l’azione umana crea una serie di ostacoli per la diffusione della biodiversità, ostacoli che certamente concorrono al fenomeno della sesta estinzione.
Con tutte queste modalità di cui abbiamo sommariamente dato conto, l’homo sapiens, “verosimilmente il più efficace invasore della storia biologica” (Alan Burdick), sta riuscendo nel paradosso di innestare una sesta estinzione, forse “Big Six”, che lo coinvolge direttamente nella duplice veste di carnefice e vittima.
Egli è insieme agente distruttivo per moltissime altre specie, “un assassino – per usare un termine tecnico, uno sterminatore – sostanzialmente fin dalla sua comparsa”, e un oggetto della stessa distruzione che ha innescato. Così facendo prepara il suo suicidio, segando il ramo su cui sta seduto. Si tratta di un comportamento ascrivibile all’intera civiltà umana, e assai simile a quello delle cellule cancerogene, che in un delirio di immortalità e crescita illimitata devastano fino alla morte il corpo in cui albergano. Oppure vengono a loro volta sterminate dalla guerra chimica, chemioterapia, dalla guerra atomica, radioterapia, da quella all’arma bianca, terapia chirurgica.
Ma cosa spinge il genere umano lungo questa strada di distruzione e autodistruzione.
Il penultimo capitolo di “LA SESTA ESTINZIONE” è titolato “il gene della follia”, dove entra in scena l’homo neanderthalensis, che visse in Europa per almeno centomila anni, svanendo nel nulla circa trentamila anni fa. Le cause di questa scomparsa non sono state fin qui chiarite, fatto è che però esiste una forte correlazione statistica tra l’arrivo dell’homo sapiens e la sparizione del neanderthal: ogni volta che il sapiens giungeva in un territorio abitato dai neanderthal, questi dopo un po’ scomparivano. Col che tra le due specie homo ci furono rapporti sessuali testimoniati dal fatto che ogni persona ha oggi una percentuale di DNA – circa il 4% – di origine neanderthaliana.
Seguendo la traccia della sesta estinzione oserei dire che senza un salto evolutivo dell’homo sapiens l’olocausto è dietro l’angolo, s’intende nell’ordine di qualche secolo.
Un salto evolutivo che non è in carico soltanto alla natura bensì anche alla cultura, significando con questo termine la capacità di prefigurare future inedite forme di creazione e cooperazione tra gli umani e con la natura.
L’homo sapiens “conquistò il mondo” tramite un mix di intelligenza, violenza fino alla scienza della guerra, mobilità e migrazioni fino a traversare i mari, attitudine a riprodursi con una frequenza fino a allora sconosciuta, cooperazione.
Inoltre si sviluppò imparando a dare un nome alle cose (il linguaggio), a inventare e costruire ex novo oggetti materiali e concettuali imprevisti e imprevedibili (la tecnologia e la filosofia), a associarsi in comunità (società civile), a stringere alleanze con gli altri animali (i canidi per esempio), a costruire una seconda natura di cui le città sono l’opera più significante, a ricercare le leggi naturali per usarle a suo beneficio inventando le scienze naturali – biologia, fisica, neuroscienze, medicina ecc..- e la matematica, a stabilire forme di convivenza e governo tramite la politica, a creare universi virtuali via computer science e tecniche algoritmiche allegate, a capire se stessi, il gnothi s’auton socratico, ecc…
Ora è difficile dire quali saranno le caratteristiche dell’homo novus, personalmente sono propenso a dire “scienza e democrazia”, scienza e politica dei cittadini. La strada che corre tra questi due corni mi pare quella da percorrere oggi per fare i conti con l’avventura della sesta estinzione. Sarà lunga e accidentata, specie in un mondo globale dominato dalla logica del profitto e dai mercanti, dall’accumulazione finanziaria di capitali, dalla competizione geostrategica più dura costellata di guerre un po’ ovunque, nonchè un mondo agito in larga misura da strategie selfish (egoistiche) e preda di diseguaglianze enormi.
Per concludere leggiamo Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce ne è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere che e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”