Gaza, era solo un anno fa

Il 28 luglio 2014 i missili israeliani uccidevano 8 bambini gazani. Il ricordo di quella notte. E della bambina con gli occhi di panda.

di Costanza Pasquali Lasagni

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

Un anno fa in questi giorni le bombe cadevano su Gaza. Era ancora l’inizio dell’incubo ma non lo sapevamo.

Questo è quello che scrissi, in una notte di rabbia di un anno fa, e mandai ai miei amici urbi et orbi.

28 luglio 2014 23:16:28

Non so bene da dove cominciare. Perché pensi che dopo 21 giorni, si sia detto tutto. Si sia analizzato tutto. Si siano viste tutte le foto possibili, si siano lette tutte le cose possibili, si siano fatte utte le conversazioni possibili. E c’è solo da aspettare. Senza aggiungere altra retorica.

Poi ti rendi conto che i livelli, di conoscenza e di coinvolgimento, sono tanti. C’è chi è dentro, i gazani, in primis. Quelli che non sai se domani saranno ancora vivi. Il collega che chiami tutti i giorni, che abita in Middle Gaza e da giorni non può uscire perché, oltre a non essere sicuro, non esistono più le strade e si scusa che non può andare alle riunioni del cluster. Gli amici che almeno una volta al giorno vuoi sapere se stanno bene. I colleghi rifugiati in ufficio a Gaza da venti giorni. Perché nel frattempo devi anche lavorare, e per fortuna. I giornalisti, che dicono che cose così non le avevano mai viste. Poi ci sono i tuoi colleghi a Gerusalemme, che non hanno mai visto la Striscia di Gaza manco in cartolina perché non ci potranno mai andare. Poi ci sei tu, e la tua combriccola di amici cooperanti umanitari, che ti assorbi di news, refreshi Aljazeera e Twitter ogni 5 minuti e piangi ad ogni foto di bambino insanguinato e ad ogni messaggio col conteggio dei morti e dei bombardamenti non sai più come sentirti. Poi controlli i dati che arrivano, ogni giorno, da Gaza, dove sono oggi le case bombardate. Quanti profughi in più. Quanti medicinali in meno. Analizzi e ricalcoli, perché dobbiamo essere pronti ad entrare appena cessano il fuoco. Ce lo ripetiamo da venti giorni.

E poi ci sono tutti quelli fuori, in Italia, nel mondo. A cui forse manca ancora qualche pezzo, nonostante siano tre settimane che li bombardi di foto-tweets-articoli e chi più ne ha più ne metta, evviva facebook.

Si è detto di tutto in questi giorni. Eppure, dopo venti giorni, non sembra ancora finire. Ci siamo illusi tutti, nei primi giorni. E poi un altro, e poi un altro. E ogni giorno si toccava il fondo, e pensavi beh ora basta, non può essere peggio di così. I quattro bambini uccisi sulla spiaggia. Poi il finto tentativo di accordo egiziano. Ci siamo cascati tutti, come dei principianti, o forse come degli umani.

Poi l’incursione di terra. Poi Shaja’iyeh rasa al suolo. Poi Khuza e Beit Hanoun. La scuola dell’ONU che ospita rifugiati scappati dai quartieri bombardati. E poi la pausa “umanitaria”, che ha permesso solo di scoprire altri orrori su orrori. Per poi ricominciare, sempre peggio. Il quartiere generale di UNRWA, gli ospedali, le ambulanze con medici e paramedici dentro. Il cortile dove giocavano dieci bambini, solo oggi pomeriggio.

Gaza oggi

È peggio. Ogni giorno è peggio.

È peggio delle ultime due guerre a Gaza, del Libano del 2006. Scenari da terremoto, da fine del mondo. Una distruzione immane. fisica e psicologica. I villaggi di “confine”, se possiamo chiamare pochi km di entroterra su un territorio largo 6 un confine, e non circa il 55% del territorio, sono stati rasi al suolo. Carri armati e buldozer stanno spianando, stringendo e strozzando ancora di più gli abitanti di Gaza. Un milione e ottocentomila persone, di cui ottocento mila ragazzi sotto i 14 anni, vivono da tre settimane senza alcun luogo sicuro dove stare. Non che prima Gaza fosse un bel posto dove vivere, ma non se lo sono certo scelto. E da tre settimane nessun luogo è sicuro. Nessuno.

Se non fosse ancora chiaro, i gazani, palestinesi di serie D, non possono uscire dalla Striscia. Non possono andare in Egitto. Non possono andare in Israele. Né chiaramente buttarsi a nuoto nel Mediterraneo. Lo farebbero, se non avessero le navi israeliane pronte al fuoco. Se non fosse che anche il mare gli è negato.

Finora qualche centinaio di feriti gravissimi è riuscito a raggiungere Gerusalemme, Amman, o l’Egitto. Gli altri sono in attesa di morire per mancanza di cure perché gli ospedali sono al collasso, o sono già morti sotto le macerie perché nessuno ha potuto soccorrerli. I medici, come testimonia Mads Gilbert, chirurgo norvegese che da un mese denuncia gli orrori commessi sugli ospedali di Gaza, sono allo stremo. Il personale paramedico viene attaccato sulle ambulanze. I bambini di sei anni, circa il 30% dei gazani, stanno vivendo la loro terza, e peggiore, guerra. Come cresceranno? Migliaia di famiglie hanno un mucchio di macerie al posto della casa. Cosa proveremmo noi al loro posto? Chi sopravvive, come vivrà? La ricostruzione di Gaza, semmai avverrà, dato che i materiali da costruzione non possono entrare, sarà una questione di anni. La ricostruzione psicologica di un milione e ottocentomila individui, ognuno con i suoi morti e la sua distruzione, non la immagino nemmeno.

I primi giorni i morti erano una ventina al giorno, colpiti da raid aerei. Già insopportabile per le nostre coscienze a 60 km di distanza. Da quando sono entrati i carri armati, la media è salita al 100 al giorno. Intollerabile. Inumano. Ingiustificabile.

“Fanno il tiro al bersaglio con le esche vive”, “è come se per colpire la mafia radessero al suolo la Sicilia, con tutti i siciliani dentro”, mi dicono i miei amici giornalisti, dentro da due settimane. E’ quasi fin troppo facile massacrare civili a secchiate a Gaza. Qualcuno parla di Sabra e Chatila, quando racconta di aver avuto accesso ai luoghi bombardati solo giorni dopo.

Sono giorni che mi chiedo se avessi avuto qualcosa da scrivere, on the top of tutto quello che è già stato scritto, detto, fatto, provato. E ogni giorno penso che magari domani finirà, o che è già stato scritto tanto. Ma una sera in cui ti senti più anestetizzata, perché hai fatto yoga e lavorato con tutto il tuo impegno possibile, e domani sarà un altro giorno uguale a oggi, anzi peggio, ma tu sei pronta (e tu non sei a Gaza, sei sana e umana e anche lucida) pensi sia ora di buttare giù quello che è già stato detto, e scritto. E dirlo e scriverlo ancora una volta. Non quello che penso io, dal mio quartiere dorato e intoccabile di Gerusalemme da cui di certo non ho la percezione di quello che si vive, e si muore, a Gaza, e da cui un giorno me andrò sana e salva da qualche altra parte. Ma di dire e scrivere quello che è già stato detto e scritto. Questo non è un articolo, un saggio su Gaza o uno sfogo.

Beit Hanoun dopo le bombe del 28 luglio 2014

Questo è un appello alla conoscenza.

Di buone analisi politiche, sul gas, sull’Egitto, su questo o su quello, se ne possono leggere tante in giro. Di foto, più o meno strazianti, professionali e amatoriali, se ne trovano tante in rete. Di feedback dei vari giornalisti, attivisti, cooperanti, anche se ne trovano.

E allora io vi chiedo. Leggete, guardate, ragionate, diffondete. Parlate col vicino, col fruttivendolo, col fioraio.

La disumanità, la crudeltà a cui assistiamo in questi giorni, impotenti e umanamente incazzati, non può restare disconosciuta. Nemmeno dopo ventuno giorni.Uno per tutti, tra i milioni di ottimi contributi di questi giorni, e tra le tante persone che raccontano Gaza in questa guerra, questo. Non perché sia il migliore, ma perché la bambina “pandasized” non può essere scordata.

Un anno dopo, Jon Snow ha ritrovato la bambina con gli occhi di panda, finalmente guariti.

Un anno dopo, Gaza è ancora così

​Palestinian Diaries, from Palestine with (little) love, 2014.