di Francesca Rolandi
L’estate del 2015 verrà ricordata forse una delle più calde degli ultimi anni anche nella penisola balcanica, dove i giornali già da settimane parlano di “temperature infernali”. E il termometro effettivamente oscilla tra massime che spesso toccano i 40 gradi e minime che sotto i 25. I boschi vanno a fuoco e gli anziani accusano malori in grande numero.
Ma più ancora delle circostanze climatiche a preoccupare secondo molti analisti dovrebbe essere l’escandescenza della situazione politica nella regione.
Dal giorno della cerimonia per la commemorazione del massacro di Srebrenica e dalla conseguente aggressione ad Aleksandar Vučić la Serbia ha mandato segnali contrastanti.
Mentre il suo ministro degli Esteri Ivica Dačić menzionava la possibilità di un ritiro degli ambasciatori, Vučić dichiarava di essere preoccupato per la stabilità politica nella regione. Una stabilità che però non viene dal cielo, ma della quale la Serbia, in conseguenza dell’impalcatura creata a Dayton e del rapporto speciale con la Republika Srpska, è uno dei principali attori.
Da una parte Vučić si vuole presentare come un pacificatore nella regione, e in questa veste tiene a bada il suo mastino Milorad Dodik, chiedendogli di ripensare ancora una volta alla sua decisione di indire un referendum nell’entità serbo-bosniaca – che chiederebbe ai cittadini di esprimersi sul Tribunale nazionale e sull’Ufficio della procura della Bosnia Erzegovina, stabiliti dagli accordi di Dayton e sui quali le entità non hanno competenze – e invita i membri della presidenza tripartita bosniaca a Belgrado per cercare una soluzione al problema bosniaco. Dall’altra proprio con questo atto rovescia implicitamente la responsabilità politica sui vertici della Federazione, che, sebbene non siano esenti da colpe, sono senza ombra di dubbio in buona compagnia dei loro vicini.
Questo stato di perenne tensione favorisce anche le élite politiche bosniache, praticamente al potere dalla fine della guerra e senza nulla da offrire all’elettorato, ma avvantaggiate dalla vecchia politica.
I toni concilianti della visita dei membri della presidenza tripartita a Belgrado, che hanno riempito i giornali della regione, non sembrano davvero significare molto, se non un utilizzo ormai logoro dello stereotipo balcanico del potere guaritore del banchettare al suon di musica. Il premier serbo e le autorità bosniache si sono fatti infatti ritrarre in un’atmosfera rilassata in un ristorante, a giocare a scacchi e a passeggio per le strade del centro di una capitale serba circondata dalle forze di sicurezza che dovevano scoraggiare qualsiasi eventuale atto di aggressione o contestazione. La dichiarazione di Vučić seguita alla visita, secondo il quale, da quel momento “si sarebbe aperta una nuova pagina di un futuro comune” suona come una litania vuota. Sebbene sarebbe bello sbagliarsi, ma se fosse bastata una visita di stato per calmare gli animi, ci si chiede perché questa non sia avvenuta prima.
Intanto da una decina di giorni è arrivato in Croazia il capitano Dragan, al secolo Dragan Vasiljković, estradato dall’Australia di cui è cittadino per un mandato internazionale per crimini di guerra commessi nella Repubblica serba della Krajina, il territorio resosi indipendente dalla Croazia durante la guerra.
Attualmente si trova nel carcere locale e la Serbia segue con apprensione la sorte del suo prigioniero – “Lei è il nostro eroe e le prometto che verrà estradato in Serbia” gli avrebbe detto Dačić in un colloquio telefonico, sostanzialmente non smentito, a febbraio di quest’anno – e si prepara a pagare le spese giudiziarie.
Intanto a breve potrebbe arrivare a tenergli compagnia il generale in pensione dell’Armata jugoslava Borislav Đukić, fermato in Montenegro su mandato croato. Đukić è accusato di essere il responsabile di crimini contro civili per il tentativo, non riuscito, di abbattere, minandola, la diga sul lago Peruča che avrebbe potuto portare a una catastrofe umanitaria. Ogni tentativo di processare i responsabili dei crimini commessi negli anni ’90 dovrebbe essere lodevole proprio per dare un nome e un cognome a chi era in cima alla catena delle responsabilità e liberare le nuove generazioni dal peso di quello che è stato fatto dai loro padri; questo però tuttavia quasi mai succede perché gli stati odierni per primi si presentano come eredi delle parti in guerra negli anni ’90 e manca una presa di distanza dalle scelte di coloro che erano al potere negli anni ’90 e portarono disgraziatamente a una guerra fratricida.
Infine Ivica Dačić ribatte da tempo a distanza con i vertici croati riguardo alla celebrazione dell’operazione Tempesta che riportò nell’estate del 1995 sotto l’egida croata i territori occupati dai separatisti serbi a prezzo di una pulizia etnica che causò la fuga di gran parte della popolazione serba precedentemente residente.
Nell’ultima dichiarazione ha concluso che la partecipazione di eventuali ospiti alla celebrazione verrà considerata una “posizione anti-serba”, un messaggio agli ospiti internazionali che quest’anno dovrebbero assistere alla parata. Un muro che si scontra dall’altra parte con un altro muro, quello della glorificazione senza macchia e senza critica della “guerra patriottica” che viene portata avanti dall’establishment croato. E proprio l’operazione Tempesta è uno dei punti della discordia tra i due stati: per uno festa nazionale perché segnò la fine della guerra e il recupero dell’integrità territoriale; per l’altro fenomeno luttuoso che significò la fuga della popolazione serba dalle sue aree di insediamento secolare. Una pulizia etnica che avvenne non per inerzia ma ancora una volta ad opera dei responsabili, anche se quasi mai questi hanno pagato – i generali Gotovina e Markač, condannati in primo grado dal Tribunale dell’Aia, sono stati successivamente assolti –, mentre procedono con scarso impegno anche le operazione di ricerca ed esumazione degli scomparsi.
È triste notare però che queste divergenze nelle interpretazioni del passato si trasformino spesso in combustibile pronto a nutrire le tensioni presenti. E come gli incendi difficili da domare che in questi giorni hanno prostrato la Dalmazia e l’Erzegovina, trovano sempre materiale infiammabile per propagarsi.