di Lorenzo Bagnoli
Si stringe il cerchio attorno alla primula rossa di Castelvetrano. Altri 11 fedelissimi di Matteo Messina Denaro, il capo dei capi di Cosa Nostra, da 22 anni latitante, sono finiti agli arresti dopo la seconda fase dell’Operazione Ermes. “Matteo Messina Denaro è una sorta di parassita che non tiene conto dei legami familiari, ma usufruisce dei soldi che i componenti della sua famiglia e del clan possono fargli avere”, spiega nella conferenza stampa la pm di Palermo Teresa Principato, che, insieme ai colleghi Paolo Guido e Carlo Marzella, ha seguito il caso.
“Nonostante il territorio sia più che sorvegliato e da anni si susseguono operazioni, ancora non siamo riusciti a prendere il latitante. Questo può significare solo che gode di protezioni ad alto livello”, prosegue
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Condannato all’ergastolo per essere stato mandante della strage di via Palestro a Milano e di via dei Gergofili a Firenze, entrambe del 1993, Matteo Messina Denaro è cresciuto all’ombra di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i leader della stagione stragista di Cosa Nostra. Da quando è stato condannato, il suo volto è diventato sconosciuto. Messina Denaro compie il miracolo di esserci, con le sue pressioni, con la sua (apparente) capacità di creare lavoro, con la sua presenza massiccia, pur essendo invisibile. Da quando è ricercato (giugno 1993) non si conosce più il suo volto.
“Sono il quarto di sei figli di mio padre Francesco Messina Denaro (capomafia di Castelvetrano, ndr) e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi”.
Lo dice proprio Matteo Messina Denaro, allora 26enne, in un verbale pubblicato da L’Espresso, raccolto dagli agenti della Squadra mobile di Trapani, guidata all’epoca da Rino Germanà. Una confessione che finalmente fa piazza pulita dei falsi miti dei boss con camicia inamidata e ventiquattro ore al seguito, nuovi broker delle Borse di tutto il mondo. E invece nascono con la zappa in mano e muoiono allo stesso modo. Solo che il loro potere li avvicina a qualunque ambiente: più cresce, più si alza la pila di contatti influenti di cui si dispone. E questi – i contatti con gli alti piani delle istituzioni – sono il segreto per una latitanza duratura.
«Mio padre ha iniziato la propria attività agricola come campiere e coltivatore presso i terreni della famiglia D’Alì Staiti (cugini del senatore Antonio D’Alì del Ncd, ndr) che si trovano in contrada Zangara a Castelvetrano. Tre anni fa ho subentrato in questo lavoro a mio padre con gli stessi compiti che lui ha svolto per trent’anni su quelle terre», continuava nel verbale di 27 anni fa l’attuale latitante. Non ha mai lasciato definitivamente il trapanese, ma ha sempre viaggiato con costanza nelle grandi capitali europee. Viaggi d’affari, per incontrare i suoi uomini sparpagliati in mezzo mondo, professionisti che si mescolano nella zona grigia, il pescoso mare di prezzolati, compiacenti e ben disposti servitori della mafia che la alimentano pur senza farne parte.
La storia di Matteo Messina Denaro a tratti pare uscita da un’immagine di mafia che ormai sembra scomparsa. E che, al contrario, continua ad essere attuale. L’immagine di una Sicilia dove non si muove foglia senza che il boss non lo venga a sapere, dove si comunica con i pizzini (scritti da un amanuense assoldato da Matteo Messina Denaro, in questo caso), dove ogni attività (dai laboratori di analisi fino alle piccole aste fallimentari di paese) passa tra le mani del grande boss. Queste sono le caratteristiche della mafia che ritornano nella tradizione, ciò che la rendono così ancorata alle tradizioni e al suo popolo. È sempre stato questa una delle leve per generare consenso: la simbologia in fondo immutata del boss di Cosa Nostra. Altro che City di Londra o Wall Street.
Se la mafia si nutre ancora di ciò che tradizionalmente ne ha prodotto la crescita è anche perché il Sud sembra ancora fermo all’anno zero. L’ultimo rapporto Svimez è l’ennesima condanna senza appello: dal 2000 al 2013 il Sud è cresciuto del 13%, la metà della Grecia che ha segnato +24%. Nel 2014 al Sud si sono registrate solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia.
Finché il Sud sarà questo, la sua terra sarà preda del Matteo Messina Denaro di turno, abile incantatore di potenti capace di comprare con la sua forza la propria libertà. Ma se c’è un segno di speranza in questa storia viene proprio da chi ha denunciato la rimula rossa. Se Ermes ha avuto un inizio la magistratura lo deve alla testimonianza dell’imprenditrice della sanità Elena Ferraro, che ha saputo rimandare al mittente (pagandone le conseguenze con minacce e atti intimidatori) le richieste di pizzo del cugino di Matteo, Mario Messina Denaro. Ma ciò che è straordinario è che seppur circondata da un affetto nuovo Ferraro può continuare a fare il suo lavoro, senza doversi limitare all’essere vittima. Forse da cui, dalla rottura del meccanismo di vittimizzazione di chi si ribella alle contingenze, nascerà il riscatto. Della Sicilia e non solo.