Gli angeli caduti di Santa Cruz

Santa Cruz, qualche paio di milioni di abitanti, ma io non li ho contati e poi internet prende male e quando mi ricordo di controllare su qualche sito il numero preciso, sono troppo lontana da una connessione e così confermo il mio essere maldestra nel raccogliere le notizie e mi dimentico della notizia e mi ricordo di quello che mi succede.

Da Santa Cruz, Bolivia testo e foto di
Gabriella Ballarini
Quello che mi succede è arrivare in una città, credo tra le più brutte di Bolivia, una città dove Papa Francesco ha parlato da un incrocio di strade, da un posto di fronte ad un Burger King, che poi pare sia diventato famoso, ma io nemmeno quella storia del Burger King la conosco, non mi sono documentata.

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Vedo quel che resta di un grande evento, un palco, un pulpito e c’è sempre una persona seduta, di vedetta, come a controllare, che nessuno tocchi l’incrocio di strade, che nessuno dimentichi. Passo oltre, seduta sul retro della macchina di un missionario che ci porta verso la nostra nuova casa, per una settimana sarà la nostra casa.

Casa, che parola strana quando si arriva in un posto come questo. Si chiama “Hogar Santa Maria de los angeles”, ci vivono 60 bambine e bambini. Qui a Santa Cruz sono circa trenta gli Hogar che ospitano minori, lo Stato pare non sovvenzioni praticamente nulla, la chiesa e i benefattori privati se ne sono presi carico negli ultimi anni. Io vivo qui e mi guardo attorno.

La casa è divisa tra piccoli e grandi e di notte si chiude tutto a chiave, il buio è un buio pesto e il silenzio è un abbaiare di cani, un andare di insetti, il silenzio è il guardiano che passa e trascina i piedi, siamo noi che ci prepariamo un mate di coca e salutiamo la giornata passata.
Sessanta è un numero enorme per una famiglia. A tavola siamo circa 14 tavoli e per ogni tavolo, ci sono infiniti silenzi e sguardi e poi c’è Victor.
Arrivo in mensa, con l’odore forte del minestrone che lo abbiamo messo nei piatti troppo presto e il vento gelido dalle finestre, lo ha raffreddato e mentre lo mangio mi si contorce lo stomaco ed è denso di grasso di gallina, che magari ne trovo anche una zampetta tra uno spaghetto e una patata. Guardo Victor, di fronte a me, ha il labbro leporino che gli mangia le parole, escono a metà e io devo capire come non farmele scappare. Giovedì, mi dice, ricordati che è il giorno dell’amicizia e poi continua a parlare, ma io non capisco e mi protendo in avanti, nulla, però sento che è felice e fa anche dei segni con le mani, come quando vince la tua squadra preferita e ringrazi il cielo o chi ti pare.

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Oltre a Victor c’è la bambina Giraffa. Lei è arrivata da poco, per ripararsi dal freddo ha un maglione con il cappuccio che è una testa di giraffa e ci guarda da dentro al cappuccio, cerca il nostro sguardo e noi non ci sottraiamo. La bambina giraffa ha un’età che io non la saprei dire, forse sette, forse nove, era piccola come una di sei e sveglia come una di undici. Arrivava da un altro hogar e se lo chiedi in giro, tutti arrivano da un altro hogar e prima da un altro ancora e ancora un altro. Hogar vuol dire casa in spagnolo, ma casa vera, che mi sembra assurdo che questo posto si chiami casa, anche se tutto è pulito e ognuno ha il suo pigiama e il cibo non manca e se è il tuo compleanno ti cantano la canzone e ti regalano le caramelle.
Santa Cruz è forse la città più brutta di Bolivia, ma qui vive Inès. Adolescente complicata. Inès non ha voluto fermarsi in aula con noi, Inès scappa e chiede attenzioni, una delle ragazze più grandi, Inès non è cresciuta mai, è una bambina in un corpo di donna. Durante la pausa mi guarda da lontano, la prendo per mano e la porto in un posto un po’ isolato dagli altri, ci mettiamo dietro al muro di pietre rosse. Lei mi permette di prenderla per mano, le dico che non importa se è andata via, che l’unica cosa che mi interessa è che lei stia bene: io non sto bene, mi dice, altrimenti perché sarei andata via?
Inès mi toglie le parole, che non so che dirle, lei lo sa che io non potrò dire nulla, allora mi abbraccia e mi toglie dall’imbarazzo, poi mi guarda e mi dice: me la regali la tua collana?
Ridiamo e torniamo dagli altri. Victor passa in quel momento e mi dice che le papere lo stanno aspettando, che è lui il responsabile delle papere, che però ce n’è una che ne ha uccise già tre: vuoi venire a vedere la papera che è morta ieri? Gli ridono anche gli occhi mentre me lo dice, ormai lo capisco anche se le parole si spezzano sempre a metà.

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Sono passati sette giorni e noi prepariamo lo zaino, le papere di Victor non hanno speranze di sopravvivere per molto tempo, ma lui fedele le nutre con il riso avanzato che prende dal cesto sottobraccio. Inès non è riuscita ad ottenere la mia collana, la bambina giraffa ci saluta in pigiama la notte prima di partire.
Santa Cruz resta sicuramente la città più brutta di Bolivia, ma vista da lì non solo è brutta, diventa crudele, diventa una casa, con di fronte uno stagno, diventa un segno di speranza e un atto contro la vita bambina. Diventa le mie mani che salutano e il mio zaino caricato che è ancora buio, la macchina inghiottita dal silenzio di un vialetto inondato, che diventa stagno, che diventa malaria, che puoi anche morire, a volte.