Tabarka

Tra presente e passato, musica e storia,
reportage da una città della Tunisia occidentale
una volta sede di un prestigioso festival jazz

di Clara Capelli

È lunga la strada che da Tunisi porta a Tabarka, al confine con l’Algeria. Sono circa 175 chilometri, ma l’autostrada finisce a Oued Zarga, poco meno di 70 chilometri dalla capitale. E chissà quando sarà costruito il tratto finale. Poi si deve guidare sull’asfalto polveroso, che taglia a metà prati di girasoli stremati dal sole e campi brulli. Poi le montagne, facendo attenzione alle capre e magari fermandosi per comprare del miele o dei pinoli dagli abitanti della zone che allestiscono banchetti di fortuna lungo la strada. Poi, finalmente, il mare.

Quella di Tabarka è una storia lunga, fatta dell’intreccio di tante storie di popoli diversi; è anche una storia mediterranea, di quel Mediterraneo che in passato, seppure non sempre in maniera pacifica, non era una frontiera da valicare ma uno spazio da percorrere.

A metà del Cinquecento una comunità di liguri si installò a Tabarka per dedicarsi alla pesca del corallo, di cui quella zona è ricca. Due secoli dopo, stremati dagli attacchi dei pirati e impoveriti dal deterioramento delle riserve coralline, i loro discendenti risposero all’invito del re Carlo Emanuele III di Savoia e accettarono di trasferirsi sull’isola di San Pietro, allora disabitata, fondando la città di Carloforte e portando con sé la loro lingua (il cosiddetto “tabarchino”) e le loro tradizioni. Della loro presenza a Tabarka rimane però il Forte genovese, oggi usato come presidio militare dall’esercito tunisino, che domina la zona da un’altura appena fuori città.

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In epoca più recente, Tabarka divenne un’apprezzata stazione di mare, fino al suo periodo d’oro intorno agli anni Settanta, tra feste, locali e addirittura spiagge di nudisti. Una località – così si racconta – frequentata soprattutto dalla gauche intello francese e tunisina e, forse proprio per questo motivo, divenuta sede nel 1973 del celebre Festival Jazz, il cui slogan era non a caso “Je ne veux pas bronzer idiot” (Non mi voglio abbronzare come un cretino).

Il festival è solo una fra le numerose manifestazioni estive della città, ma è intorno a questa iniziativa che si costruisce la leggenda.

Soprattutto i primi anni Tabarka richiama alcuni dei nomi più noti della scena musicale mondiale: Miles Davis, Keith Jarrett, Dizzy Gillespie, Léo Ferré, Miriam Makeba, Charles Mingus e molti molti altri. Con il tempo però le cose si fanno sempre più complesse e difficili, la Tunisia cambia, i soldi iniziano a non bastare e nel 2008 il festival viene annullato a sorpresa. Gli artisti lasciano Tabarka per non tornare più, lasciandosi dietro racconti, foto polverose e malinconiche, qualche omaggio kitsch qua e là nel centro abitato, come un enorme violino che troneggia su una rotonda poco lontano dal lungomare.

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Camminando per Tabarka ci si chiede dove si tenesse questo famoso festival menzionato da tutte le guide turistiche. C’è un anfiteatro poco fuori dalla città, ma non è ancora finito. A parte questo, non ci sono spazi adatti. Fino a che, nel tentativo di visitare la basilica romana di Tabarka, io e i miei amici scopriamo che a fianco di questo monumento abbandonato c’è un piccolo teatro a gradoni. Sul palcoscenico, nonostante il caldo di un pomeriggio di fine Ramadan, un signore sulla sessantina è intento a lavorare su un mixer. Un breve scambio di convenevoli e scopriamo che Hassan, questo il suo nome, non è un semplice tecnico del suono. È uno dei principali testimoni della storia del Festival Jazz di Tabarka. E con una gran voglia di raccontarcela.

«Sono qui dall’inizio, nel 1973 ho cominciato a lavorare per il festival e stavo in biglietteria. Però ero curioso di tutto, allora sono passato a lavorare per l’accoglienza e l’assistenza agli artisti. E alla fine mi sono appassionato di quel coso, il mixer, piano piano ho imparato e sono diventato tecnico del suono. Ancora adesso, dopo tutti questi anni, il mio lavoro mi piace infinitamente».

Senza che sia necessario porgli la domanda, la sua storia personale sfuma nei tanti aneddoti degli artisti che ha incontrato in oltre trent’anni di lavoro, nel racconto di un festival che era parte integrante della città e con essa comunicava. E, curiosamente, senza accorgersi si mette a parlare francese: un vocabolario e un eloquio impeccabili, ma non è certo la lingua di chi ha studiato nei licei francesi della Tunisia bene. È il francese di chi ha parlato tanto, con tutti, ovunque.

«Quanto ci divertivamo. Io non so come facessimo, dormivamo due ore per notte quando andava bene. C’era il concerto, poi si sistemava tutto, poi si andava a fare festa, a ballare. E poi la mattina ci si doveva alzare perché c’erano altri eventi da preparare. Ma quanto mi sono divertito». Ti viene quasi nostalgia di qualcosa che non hai vissuto ad ascoltare il suo tono appassionato.

«Gli artisti venivano, si esibivano, ma poi stavano, si godevano la città, andavano al mare. Pensa che Keith Jarrett fece un mese qui a Tabarka, se ne andava a passeggiare per la corniche in abiti tipici tunisini, così, in mezzo alla gente! E i concerti si tenevano un po’ ovunque, qui in questo teatro, ma anche nei ristoranti, per strada». Ecco la risposta alle mie domande, il Festival non si teneva da qualche parte a Tabarka, ma proprio a Tabarka, in tutta la città. «I problemi economici c’erano sempre, questa non è una zona ricca. Però durante l’estate lavoravamo tutti: chi nei ristoranti, chi negli hotel, chi si inventava guida turistica oppure vendeva souvenir. Si riusciva a mettere da parte qualcosa per i mesi invernali. Ma, ripeto, si lavorava tutti».

Mi chiedo se sia tutto vero o se sia una sorta di mitizzazione del proprio passato, visto che il presente non è per nulla roseo. Cosa ha segnato il declino di Tabarka? Voglio sapere cosa ne pensa Hassan, seduto compito in camicia hawaiana e bermuda mentre il mio amico lo filma.

«El fulus ya binti». I soldi, mia cara. «Poco a poco i soldi hanno rovinato tutto. Il cachet degli artisti diventa troppo alto e spesso non sono nemmeno i musicisti a scegliere di esibirsi, ma i loro agenti. E gli agenti pensano solo ai soldi. Senza contare che le autorità tunisine, i politici, lo Stato, non ci hanno aiutato. I soldi andavano agli altri festival, quello di Carthage, quello di Hammamet. È sempre così in Tunisia, tutto a Tunisi e alla costa orientale. Noi cosa abbiamo avuto? Cos’ha avuto il nord-ovest in questi anni? Niente, ci hanno dimenticati. Cosa vuoi che facciano i ragazzi ora? Non c’è lavoro. Qualcuno promette loro dei soldi e partono per la Siria, per l’Iraq. Non è solo il Festival Jazz, è tutta una regione che è stata abbandonata. Perché non abbiamo soldi e quindi ci lasciano soli».

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Hassan è inarrestabile anche nelle sue critiche. Si rende conto che l’atmosfera è diventata pesante, mesta, se prima immaginavamo Keith Jarrett sulla corniche di Tabarka e giovani che fanno festa, ora vediamo ragazzi senza prospettive, stretti tra la morsa securitaria della Tunisia in lotta contro il terrorismo e la prospettiva andare a combattere per Daesh, lo Stato Islamico.

«Passione. Ci vuole passione», riprende Hassan.

«Io sono vecchio, voi giovani i vecchi non li ascoltate. Ma ci vuole passione. I soldi sono importanti, ma a Tabarka ci divertivamo perché ci piaceva la musica. E io la faccio ancora adesso, anche se mi pagano poco. Lo faccio perché sono felice quando lavoro con il mio mixer. E mi aggiorno, sapete? La settimana scorsa sono stato a Tunisi per un evento. Sono rimasto fino alle cinque del mattino a suonare con dei ragazzi che fanno hip hop. Mi hanno pagato una miseria, ma mi sono divertito. Perché per me la musica viene prima dei soldi». Quando Hassan ci saluta, accompagnandoci all’uscita attraverso un piccolo ufficio ammassato di vecchi ricordi del Festival, ci invita a tornare.

«Forse riusciremo a fare qualcosa, abbiamo un piccolo budget, chissà che non si organizzi un mini-festival più in là. Venite?». Certo che verremo. Ride. «Andiamo anche a ballare. Io ballo tutto, anche il tango e il paso doble». Dacurdu, va bene, come si dice in tunisino, un residuo della presenza italiana nel Paese. «Benissimo, allora preparo il mio completo elegante». Ridiamo e gli rispondiamo che lo vogliamo abbigliato come Keith Jarrett negli anni Settanta. A Tabarka.