Oggi i giovani profughi di Khanke ricordano quei tragici giorni con una manifestazione: le immagini
testo e foto di Sara Lucaroni
«Shingal non muore». Parole cantate e gridate per tutta la giornata, lungo la strada che dal piccolo centro culturale in cui si ritrovano per pregare si allunga sulle colline abbandonate, fino all’ingresso di uno dei campi profughi più grandi della zona. 18.500 persone, più 57.000 nelle aree limitrofe, sistemati in alloggi di fortuna.
Da giorni i giovani yazidi di Khanke preparavano cartelli, striscioni, maglie e abiti tradizionali per sfilare in ricordo dei giorni di tragedia di un anno fa. E per chiedere il riconoscimento del genocidio del proprio popolo.
Un evento sistematico, che si è ripetuto per la 74esima volta nella storia. Il 3 agosto di un anno fa l’Is attacca la provincia di Sinjar, estrema propaggine del Kurdistan iracheno, arrivando dalla Siria. Assalta la città di Sinjar e una quarantina di villaggi agricoli nella pianura, sotto la montagna sacra agli yazidi, Shingal in lingua curda, intorno alla quale vivono da quattromila anni, in armonia con cristiani, turcomanni e arabi. Le donne e le giovani vengono rapite per diventare schiave del Califfato. I bambini uccisi o condotti con le madri a Mosul e a Raqqa, per diventare soldati. Molti uomini uccisi o torturati.
Oltre tremila le vittime del massacro.
E a poco è servita la fuga dei sopravvissuti sulla montagna, assaltata per venti volte in 6 mesi, nel tentativo di catturare anche chi era scappato: in molti casi, il resto l’ha fatto la fame e gli stenti. Il 16 dicembre, la strada verso Duhok e il confine turco e una ventina di villaggi sulla piana vengono liberati. In 50 mila possono lasciare le alture, mentre in migliaia scelgono di rimanere ancora per sostenere i soldati peshmerga inviati dal presidente Barzani e i propri combattenti, armati e alleati dell’esercito.
In tutto il Kurdistan, il 3 agosto è stato ricordato con preghiere, eventi, incontri. I giovani di Khanke invece hanno deciso di sfilare davanti al campo soprattutto per ricordare che vogliono tornare a casa. E non vivere mai più l’ingiustizia atroce di essere ancora perseguitati per il motivo più stupido del mondo: il Dio in cui si crede. «Shingal non muore», hanno cantato. «Noi siamo Shingal».