So contemporary / Eron

Alla Biennale di Venezia, uno street artist italiano
dedica la sua opera a un pianista palestinese di Yarmouk:
«il futuro del mondo»
di Giusi Affronti

Venezia – Yarmouk. 2015 – Come accade da secoli, un ponte tra Occidente e Oriente nella Serenissima. Allacciato, però, attraverso il web. Che collega main stream dell’arte contemporanea e cultura “di frontiera”. Sosta al Terminal San Basilio per una visita a The Bridges of Graffiti, evento collaterale alla LVI Biennale di Venezia e mostra collettiva che riunisce – sotto il patrocinio UNESCO – dieci celebri nomi dell’arte urbana internazionale.

Uno, in particolare, è quello di Eron, tra i più sofisticati street artist italiani.

Una superficie d’intonaco ampia sette metri e dipinta con bombolette spray: la sapienza della tecnica pittorica mescola ombre, chiaroscuri e macchie di ruggine sbavate. Un’ispirazione commovente fa il resto: disegna il manifesto della resistenza, il ritratto di un eroe della storia contemporanea, il palestinese Aeham Ahmad. In alto si legge «The World’s Future». Due parole importanti e, accanto, un QR Code: un link Youtube a un documento video amatoriale racconta la storia di un miracolo quotidiano. Quello della vita nonostante la guerra.

Senza paura, Aeham Ahmad suona il suo pianoforte, tra le macerie di Yarmouk.

È attraverso il web che Eron e Ahmad s’incontrano. Accade che lo spettacolo itinerante e drammatico di un pianista di strada alle porte di Damasco si compia anche al chiuso di una sala, a Venezia, e davanti al grande pubblico dell’industria dell’arte contemporanea. Accade grazie alla mano e all’intuizione di un artista che dalla periferia delle città proviene. Un susseguirsi di contraddizioni che fa girar la testa, un cortocircuito fra cosiddette “cultura alta” e “cultura bassa”, fra “dentro” e “fuori”. Una di quelle leggere sbornie che l’arte a volte ci sa regalare.

«I dedicate this song to the victims of hunger of Yarmouk,
to the victims of the Palestinian revolution and all the victims in Syria, everyone. 
I have this message from the youth of Yarmouk: stop killing each other»: così canta Aeham Ahamd in una delle sue canzoni, mentre un coro di voci bambine ripete i suoi “ritornelli”.

Non c’è elettricità a Yarmouk e, per fortuna, non serve per suonare il pianoforte. È mancata l’acqua, per un anno e mezzo. A Yarmouk, si vive sotto assedio. Sempre.

Un tempo borgo felice e centro della vita intellettuale e culturale della diaspora palestinese; nel 2011, poi, la guerra. In migliaia sono morti, tre le bombe, di fame e di freddo. Oggi, quel che resta, è un campo profughi con diciottomila persone, un senso di disperazione assordante e, nell’apocalittica scenografia di case sventrate, le sinfonie di Beethoven provenienti da un carretto da ortolano di un musicista che non smette di suonare.

Picchia, con dignità e dal profondo dell’anima, i tasti di ebano e d’avorio; gli piace Haydn ma anche il jazz arabo. Ayham Aeham, figlio di un violinista ormai cieco, è giovane, ha studiato al Conservatorio arabo di Damasco e sogna di lavorare in una grande orchestra. Lo Stato Islamico trancia speranze, teste e dita: poiché la musica è harām, proibita, a volte è costretto a suonare dal tetto della sua casa, magari all’alba.

Vendeva felafel nel campo fino a quando l’istinto della musica – e della vita – manda all’aria ogni promessa di neutralità: da quel giorno, quando il cielo non è attraversato da missili e bombe, carica il vecchio pianoforte fra cumuli di calcinacci a perdita d’occhio e suona per la sua gente.

Concedere una manciata di minuti di gioia per scrollarsi di dosso quell’orrenda sensazione di morte, per resistere. Fino alla fine.

Le immagini che rimbalzano sui social network di Ayham Aeham evocano la struggente esecuzione della musica di Chopin di Wladyslaw Szpilman, Il Pianista vissuto durante l’occupazione nazista di Varsavia, messo in scena da Roman Polanski. O, forse, il bianco e nero del ritratto caliginoso che ne fa Eron, a Venezia, ci rimanda con la fantasia in Marocco, a Casablanca e al suo Sam, il cantante e pianista del Rick’s Café Américain, a cui tutti abbiamo immaginato di ordinare, almeno una volta nella vita: “Play it, Sam. Play as time goes by”.

Cinematografia d’autore e libere associazioni, insomma. Musica colta e street art, un campo profughi e una rassegna d’arte internazionale, performance a cielo aperto e il web come ponte tra Occidente e Oriente, la vita e la sua negazione, la guerra. Se ha ripreso a girarvi la testa, è il jazz dell’arte. Godetevelo.