di Christian Elia
Otto militari turchi uccisi dall’esplosione di un ordigno al passaggio del loro convoglio nella provincia di Siirt, nella zona sud-orientale del Paese, nel Kurdistan turco. Due uomini hanno tentato l’assalto al palazzo di Dolmabahce, a Istanbul. Sono stati arrestati, dopo aver ferito un poliziotto, e portavano con loro un piccolo arsenale.
Ieri, 19 agosto, è stata un’altra giornata di passione in Turchia, dopo il 10 agosto, quando era finito sotto attacco un commissariato ad Istanbul e il consolato Usa, mentre una mina aveva ucciso 4 agenti di polizia nel sudest della Turchia, mentre l’8 agosto era stata una sede del partito di governo Akp a finire nel mirino di un attacco armato.
Sembra di essere tornati agli anni Ottanta, agli anni Novanta, quando infuriava nel Paese la lotta armata tra il Partito Curdo dei Lavoratori (Pkk) e i movimenti di estrema sinistra e l’esercito e la polizia turca.
L’escalation è iniziata quando i vertici politici e militari turchi hanno scatenato l’offensiva militare contro il Pkk. Azione decisa contestualmente all’appoggio della Turchia agli attacchi della coalizione internazionale contro l’Isis, tra la Siria e l’Iraq.
Quello che accade in Turchia, però, risponde a un’agenda totalmente interna. E racconta della grave difficoltà nella quale ormai si dibatte il governo del premier Davotoglu, un monocolore Akp, figlio del padre padrone Erdogan, presidente davvero per nulla super partes.
Quello a cui si assiste è, in buona sostanza, il fallimento della narrazione con la quale Erdogan, nel 2003 è diventato primo ministro. Un approccio che puntava a riposizionare la Turchia sullo scacchiere mondiale, farne una potenza chiave, partner affidabile di Nato, Usa e Ue, ma molto più interessato a ristabilire una nuova egemonia regionale, tra repubbliche ex sovietiche e Medio Oriente in fiamme.
Un pilastro dell’Islam politico, capace di governare un Paese stanco e diviso, ma dove una classe media liberale è stata disposta a votare un leader islamista, perseguitato come tanti suoi compagni di partito, dallo strapotere dei militari e dal laicismo di Stato.
Quel patto è saltato. Oggi quella parte della società è più disposta ad appoggiare l’Hdp di Selhattin Demirtas, capace di creare una formazione politica che (come l’Akp di Erdogan nel 2003) travalica i suoi ‘limiti’ naturali, che sono quelli dell’identità curda, per raccogliere i voti della comunità LGBT, degli aleviti, degli armeni e così via. Un partito capace di convogliare la rabbia di Gezi Park in una risposta politica. Una risposta forte, visto che mentre l’Akp perdeva nove punti percentuali fermandosi al 40 per cento, il 10 giugno scorso l’Hdp sfondava lo sbarramento del 10 per cento entrando in Parlamento.
Erdogan e l’Akp hanno a quel punto rispolverato la carta che il tanto vituperato establishment militare del Paese, che l’Akp ha combattuto con ogni mezzo in passato, ha sempre usato nei momenti di crisi: il terrorismo del Pkk. Elemento che in una società che per anni ha avuto un dibattito pubblico blindato sulle posizioni nazionaliste, è sempre una chiave di lettura per fare presa sulla ‘pancia’ del Paese. Magari in vista di quelle elezioni anticipate che sembrano sempre più necessarie.
Erdogan è in difficoltà. L’economia, per anni a livelli da ‘miracolo turco’, ora è in affanno. La crisi siriana è esplosa nelle mani di Erdogan. Lui, come i suoi sodali, hanno preso fin dall’inizio delle rivolte arabe, nel 2011, posizione a favore dei movimenti islamisti che erano presenti i tutte le ribellioni che sconvolsero il Medio Oriente quattro anni fa. Dovendo poi arretrare sempre più di fronte a quello che accadeva. In Siria, puntando su una veloce debacle di Assad, la Turchia si è spinta troppo oltre, in un rapporto sempre più stretto e morboso con le formazioni sunnite, compreso quello Stato Islamico che ora Ankara si dice pronta a combattere.
La politica dell’accoglienza dei profughi siriani mostra la corda: secondo l’Unhcr alla fine di quest’anno saranno un milione e 700mila i profughi siriani in Turchia. Una spesa immensa, che l’opposizione usa come arma politica contro il governo, che si trova ad affrontare una disoccupazione in crescita e un PIL in calo. Mentre le tensioni tra i cittadini turchi e i profughi siriani soprattutto lungo il confine diventano sempre più forti.
Ecco che la guerra dichiarata al Pkk chiude un altro capitolo della politica che aveva portato Erdogan al potere nel 2003, proprio lui, sostenitore della politica del dialogo e della soluzione pacifica del conflitto. Poi la Siria, il Kurdistan siriano che si dimostra il miglior baluardo anti Isis, la considerazione e la solidarietà internazionale verso i curdi sempre più forte, e l’Hdp che avanza trionfante alle elezioni.
Nel Pkk, da tempo, la linea della svolta politica del movimento era stata chiaramente indicata da Ocalan, il leader curdo consegnato alla Turchia nel 1999 e che da allora è rinchiuso nel carcere di Imrali. La smilitarizzazione dei gruppi e il reinserimento nella vita civile, da tempo, erano diventati argomento più dibattuto della lotta armata e ora l’offensiva dell’esercito turco non farà che alimentare i ‘falchi’ del Pkk irriducibili che volevano continuare la lotta a oltranza nonostante i curdi iracheni fossero sempre meno interessati a proteggerli.
Ankara, invece, sta perdendo la testa e gioca la carta della militarizzazione del Kurdistan turco e della lotta militare contro il Pkk per recuperare terreno. Sulla pelle dei civili curdi dei villaggi, dove torna la tensione e la violenza del passato. La situazione non promette nulla di buono, con poche certezze sull’evoluzione della situazione, ma un dato di certezza esiste già: il neottomanesimo di Erdogan è fallito politicamente e strategicamente.