di Francesca Rolandi
Le ruspe hanno finito di farsi largo tra le vecchie case di mattoni fatiscenti e i magazzini abbandonati, lasciandosi alle spalle una spianata. Nella capitale serba avanza il progetto Beograd na vodi [Belgrado sull’acqua], che ormai da un paio di anni è al centro delle critiche di associazioni e ambientalisti della società civile. Nella calura agostana il sindaco della capitale serba Siniša Mali dichiara davanti alle telecamere con visibile soddisfazione che è stata portata a termine l’opera di demolizione e che in settembre inizierà la costruzione delle due torri previste dal progetto.
Una delle zone più caratteristiche della capitale serba, il quartiere di Savamala, è destinato a cambiare faccia per ospitare una serie di grattacieli, parte del progetto Belgrade Waterfront, che dovrebbero sorgere sulle rive dell’ex porto fluviale. Un grande centro commerciale, hotel e appartamenti di lusso nel cuore grigio di quello che era una zona popolare. Quest’area della città, che ospita uno degli insediamenti più antichi e porta nel nome traccia dell’eredità turca, è caratterizzata dalle facciate ormai fatiscenti e da magazzini in disuso ma nasconde anche poco più in là alcuni dei gioielli dell’architettura serba, come l’hotel Bristol costruito all’inizio del secolo scorso.
Il suo aspetto post-industriale dato dai magazzini portuali in disuso ha forse contribuito a farne un distretto della cultura alternativa, una trasformazione che è stata raccontata anche dalla stampa internazionale come un fulcro della creatività nella capitale serba. Ma l’attaccamento che una parte della città ha dimostrato verso una zona da poco scoperta non è stata l’unica ragione che ha fomentato le proteste contro le trasformazioni previste.
Gli accordi intercorsi tra la compagnia Belgrade Waterfront capital investment, finanziata dagli Emirati Arabi Uniti, e le autorità cittadine sono tutto fuorché chiari, a cominciare dal contratto, stipulato in assenza di concorrenza e non ancora reso noto. Sconcertanti, in particolare sono stati i dati resi noti in via ufficiale da un ente statale secondo i quali la holding araba avrebbe ottenuto a fronte di 22.000 euro versate il 68% dell’azienda municipale creata ad hoc. Una somma risibile per dei terreni in una delle location più attrattive della città, che getta un’ombra sinistra sulle procedure che hanno portato all’accordo.
Ma oltre all’assegnazione dell’appalto, che sembra un perfetto manuale della mancanza di trasparenza, ad essere recepito come una violenza contro la città è stato il significato simbolico dell’operazione: la distruzione di una delle aree più antiche della città per ospitare un complesso di lusso, una città artificiale che somiglia a Dubai, un non luogo nel cuore di quello che era il vecchio porto. Dal quale le famiglie che vivevano in alloggi precari vengono “evacuate” per fare posto ai grattacieli, mentre nei parchi antistanti davanti alla stazione siedono per terra i richiedenti asilo che passano a migliaia nella capitale serba nella speranza di raggiungere il nord. Un’immagine che più netta non potrebbe essere delle fratture sociali che attraversano la capitale serba, dove le parabole tra chi non ha nulla e chi ha tutto corrono le une parallele alle altre.
Inoltre, l’avallo al progetto dato dalla commissione urbanistica municipale, poi criticato ferocemente dalla maggior parte degli architetti indipendenti, fa riflettere sull’asservimento del settore degli esperti agli interessi politici del momento.
Le proteste che continuano da due anni hanno seguito le varie fasi dei lavori e continuano, sebbene con minore partecipazione, a denunciare la speculazione immobiliare in atto alla luce del sole. Perorando non soltanto la salvaguardia di un’area ma mettendo in discussione il concetto stesso di rinnovamento urbano che si è già fatto largo in diverse aree della capitale serba, come nel quartiere Belleville di Novi Beograd: costruire alloggi di lusso che giochino da facciata, dietro alla quale la povertà si nasconde come la polvere sotto il tappeto.