di Raffaele Masto, tratto dal suo blog
Accade in Mauritania, a pochi giorni dall’approvazione da parte del parlamento di una legge che equipara il reato di schiavitù ai crimini contro l’umanità. Di fatto accade che Biram dah Abeid (che vedete nella foto), presidente del movimento anti-schiavista locale, arrestato l’11 novembre 2014 e condannato in primo grado a due anni di reclusione viene processato.
Insieme a lui saliranno alla sbarra il vicepresidente del movimento Brahim Bilal e l’attivista Djiby Sow dell’ong Kawtal. L’accusa è quella di aver organizzato una manifestazione senza autorizzazione. Ovvero la “carovana” di sensibilizzazione contro la schiavitù fondiaria: fenomeno per cui i neri di etnia harratin lavorano gratuitamente le terre espropriate dal governo e vendute alle multinazionali estere.
Secondo il Global Slavery Index, elaborato dall’ong australiana Walk free, la Mauritania è il paese con la più alta percentuale di schiavi al mondo: circa il 4% della popolazione. Nel paese africano una tradizione perversa vuole che la privazione della libertà si trasmetta per linea matriarcale: così i figli delle violenze sessuali perpetrate dall’etnia dominante – i “mauri”, discendenti dei numidi, gli arabo-berberi al potere- appartengono al padre-violentatore.
Ufficialmente la pratica è stata abolita nel 1981 e il Parlamento ha inasprito le pene nel 2007 e il 12 agosto 2015, equiparandola a un crimine contro l’umanità punibile con 20 anni di carcere.
E’ certamente una notizia positiva. La Mauritania era l’ultimo paese al mondo a non avere una legislazione adeguata contro la schiavitù. Ora ce l’ha, ma spesso le leggi non bastano a cancellare pratiche anacronistiche e utili (a volte addirittura indispensabili) all’economia sommersa o meno. Si vedrà, nel caso della Mauritania, a cominciare dal processo a Biram dah Abeid e i suoi compagni.