di Cecilia Andrea Bacci e Ainhoa Muguerza, da Parigi
Adam ha 17 anni ed è arrivato in Francia un mese fa, dopo essere scappato dal suo paese, il Sudan, a causa dell’instabilità politica e dei conflitti etnici. Dal Sudan è arrivato in Libia, dove si è imbarcato alla volta dell’Italia per poi salire (di nascosto) su un treno.
Destinazione: Parigi.
Dice di trovarsi bene nel centro di rue de Loiret, nel 13esimo arrondissement, a 500 metri dalla Senna. Però, continua, le cose in Francia non sono certo come se le era immaginate. “Con tutti i problemi che abbiamo in Africa, dopo aver attraversato il deserto e poi ancora il Mediterraneo, dopo aver visto morire della gente, siamo finiti a dormire in una tendopoli sotto il ponte della Chapelle, a Parigi, accanto a una marea di escrementi”, spiega in arabo, voce calma e occhi bassi.
Gli unici sguardi li scambia con uno dei lavoratori del centro di accoglienza che poi tradurrà le sue frasi in francese. Si lamenta della violenza subita dai reparti antisommossa nei giorni precedenti, durante gli sgomberi, e del fatto che lo Stato abbia tardato nel reagire. “Siamo stati maltrattati. Non potevamo assolutamente pensare che la vita sarebbe stata così dura in Europa. C’è gente che perde la speranza e che si dispera perché non vede via d’uscita”, continua.
Adam non sa dire esattamente che ne sarà di lui: è minorenne e non conosce nei minimi dettagli tutti i passi che occorre fare per presentare domanda di asilo politico. La strada davanti a lui, verso una situazione regolare, è ancora lunga.
Un viaggio infinito
Un letto nel centro di rue de Loiret è soltanto l’ultima, provvisoria tappa di un viaggio iniziato diversi anni prima. Un viaggio infinito, fatto di umiliazioni, maltrattamenti e nostalgia a cui, adesso, si aggiunge un forte sentimento di incertezza. Nessuno dei migranti del centro sa cosa sarà di lui (o di lei) in futuro.
A giugno la tendopoli della Chapelle, nata poco più di un anno fa nel 18esimo arrondissement della capitale francese, è stata evacuata dalla polizia in assetto antisommossa. Non senza violenze. I migranti, privati dell’unico rifugio che erano riusciti a trovare dopo il loro arrivo a Parigi, ora si sentono abbandonati, senza aiuto, soprattutto in ambito legale.
Lo Stato francese, nel tentativo di bilanciare le violenze delle polizia, ha cercato di ricollocare in centri di accoglienza il maggior numero di migranti possibile. Prima di arrivare in rue de Loiret, alcuni migranti sono passati per la Halle Pajol, per il Bois de Dormoy – giardino associativo del
18esimo arrondissement dove avevano preso domicilio – e per il Jardin d’Eole.
L’edificio Loiret, situato nell’omonima via del tredicesimo arrondissement di Parigi, si è convertito da poco più di un mese in uno spazio in cui hanno trovato rifugio un centinaio di migranti. 107, per essere precisi, che si sono aggiunti ai cento che già abitavano nelle piccole stanze dell’ex-residence che oggi accoglie circa 220 persone di ben 76 nazionalità differenti. Prevalentemente africani fuggiti da Sudan, Eritrea, Repubblica Centrafricana, Ciad ed Etiopia.
Tra questi, almeno una cinquantina è riuscita a presentare regolare domanda d’asilo e ora attende una risposta che, nel migliore dei casi, arriverà tra diversi mesi. Per accelerare i tempi il direttore del
centro, Caliskan Bahattin, cerca di collaborare con l’ufficio francese per l’integrazione e l’immigrazione.
L’incertezza del futuro
Hussein e Abdulkerim, due diciassettenni Eritrei, non vedono l’ora di poter regolarizzare la loro situazione in Francia. Ma, dicono sconsolati, non sanno quando riusciranno a farlo. Entrambi hanno abbandonato l’Eritrea per evitare il pesante servizio militare a cui, per legge, sono obbligatoriamente sottoposti ragazzi e ragazze. Una pratica che Amnesty International ha contestato in diverse occasioni.
L'odissea dei migranti di Parigi from Cecilia Andrea Bacci on Vimeo.
Coltivano il sogno di continuare a studiare. O meglio, di riprendere gli studi interrotti per intraprendere il “viaggio della speranza” che dall’Eritrea li ha portati fino a Parigi. Hussein e Abdulkerim vorrebbero stabilirsi in Francia, imparare la lingua e trovare un lavoro non solo per pagare i 4mila euro che devono ai contrabbandieri, ma anche per inviare parte del denaro guadagnato alle famiglie, rimaste in Africa a causa dei costi troppo elevati del viaggio.
Tutto ciò senza contare il rischio che correrebbero nel rientrare nel loro paese, dove sarebbero considerati dei disertori. Alla vista della macchina fotografica, entrambi ci fanno cenno di abbassare l’apparecchio: “Preferiamo non essere ripresi in faccia: non vogliamo correre il rischio che i nostri genitori possano riconoscerci e scoprire le condizioni in cui viviamo adesso”.
Loro, tre dei 700 minori non accompagnati sbarcati sulle coste italiane nel 2013. Minori che, in Libia, hanno dovuto subire le violenze di chi, di notte, entrava nei loro rifugi di fortuna per derubarli di tutti i loro averi. Omar, sudanese di 22 anni, in Libia ha vissuto lo stesso periodo terrificante. “Mi ci sono voluti quattro anni per arrivare in Francia. Non avevo scelta. Frequentavo la Facoltà di ingegneria, avevo già fatto due anni e intanto i miei amici sparivano, venivano ammazzati. Ora ho voglia di iniziare una nuova vita”.
Moses, che traduce la conversazione, ha 30 anni ed è scappato dall’Eritrea cinque anni fa. Da qualche mese ha trovato lavoro qui, nel centro di rue de Loiret, e si sente “quasi in dovere” di aiutare chi ha alle spalle una storia simile alla sua. Secondo Moses i media non parlano a sufficienza del problema politico dell’Eritrea: “Vivere sotto il regime di Isaias Afewerki è un vero e proprio incubo”.
Come lui, la maggior parte dei lavoratori di questo centro è rifugiato politico, incluso Caliskan Bahattin, direttore dell’edificio, fuggito dalla Turchia dopo il colpo di Stato del 1980. “Non sono certo finito qui per caso”, aggiunge ridendo. L’attività di Bahattin in favore dei rifugiati è iniziata nel 1989 insieme alla Croce Rossa per poi proseguire, da qualche mese a questa parte, con la cooperativa Aurore. Moses, infatti, non è l’unico rifugiato ad aver trovato un lavoro proprio nell’ambito dell’accoglienza. La motivazione è per tutti la stessa: rendere ai bisognosi l’aiuto che hanno ricevuto a loro volta dopo essere arrivati in Francia. Chi trentacinque, chi cinque anni fa.
Il rispetto prima di tutto
Ogni stanza del centro di rue de Loiret ha un bagno con tanto di doccia. “L’intimità delle persone viene rispetta al cento per cento”, spiega Bahattin. Ma non si tratta soltanto di privacy, aggiunge il direttore del centro, in ballo c’è anche la salute dei migranti, messa a dura prova dal tempo passato nelle varie tendopoli di Parigi. Poi, aggiunge Bahattin, subito dopo la salute arriva la sicurezza: “A ogni migrante viene data una chiave elettronica. Questo permette loro di avere libertà di movimento, di entrare e uscire dal centro quando meglio credono”. La chiave serve anche a tracciare i movimenti dei migranti, “nel caso in cui qualcuno dovesse lamentarsi ‘perché qualcun altro è entrato nella sua stanza’, noi saremmo perfettamente in grado di verificare chi ha fatto cosa”.
Con un letto in rue de Loiret non sono spariti soltanto i materassi e i giacigli di fortuna di Porte de la Chapelle e del Bois de Dormoy. I migranti hanno guadagnato anche una sicurezza: quella dei pasti. “Anche durante il periodo di Ramadan, abbiamo fatto in modo di arrivare pronti per le 10 di sera. Si tratta di un accorgimento importante dato che la maggior parte dei migranti arrivati qui nelle ultime settimane è di fede musulmana”, ci spiega Bahattin mentre indica un centinaio di pasti pronti in dei grossi contenitori di metallo.
L’edificio, che conta circa una ventina di piani, appartiene all’azienda immobiliare Chemin de Fer e viene gestito dall’associazione Aurore. Dalla conversione in centro d’accoglienza, avvenuta nel dicembre 2014, il palazzo ha accolto diverse famiglie e persone in condizioni precarie e a rischio d’isolamento sociale.
Al primo piano, tra un corridoio e l’altro, c’è spazio anche per una sala adibita a lavanderia e per un salone interamente dedicato alle mamme, per dare loro la possibilità di giocare tranquillamente coi figli. Lo Stato si occupa di fornire i fondi sufficienti per pasti, vestiti e tutto il materiale necessario alla manutenzione. Il rumore dei lavori in corso (e dei treni che sfrecciano sui binari distanti poche centinaia di metri dal palazzo) accompagna la giornata dei migranti di rue de Loiret e anche la nostra visita all’interno del centro.
Questo luogo diventa così la tappa intermedia di un viaggio che per molti continua coi problemi burocratici e la minaccia di essere rispediti nel proprio paese d’origine. Per ora, una delle priorità del centro è quella di riparare una perdita d’acqua che ha reso inagibili diverse stanze. “Tutte quelle che terminano col numero 7”, spiega Caliskan Bahattin. Un problema banale che fa parte di una routine che molti affrontano con un’unica speranza: vedere la propria situazione regolarizzata in quel
paese straniero, lontani dalle famiglie.