di Silvia Turati, da Akkar, Libano
Akkar, Libano settentrionale. Una regione molto vicina al confine con la Siria. E’ una zona piuttosto disordinata, per lo più povera, molto diversa dalla capitale Beirut. La maggior parte delle auto sono vecchie Mercedes che circolano su stradoni poco curati e confusionari.
Nel nord del Libano si trovano attualmente quasi 300 mila profughi siriani registrati all’UNHCR e suddivisi in vari insediamenti non ufficiali. Tra questi anche un piccolo campo beduino, formato da una decina di tende, dove le famiglie che ci abitano sono tutte imparentate tra loro.
Umm Ayada è una mamma alta e robusta. Ha un fare piuttosto rude, è una vera donna di campagna che lavora duramente fin da molto giovane. Persino la sua voce è dura. Non glielo chiedo, ma suppongo non abbia più di quaranta anni, dato che la sua ultima figlia ne ha solo cinque. In realtà ne dimostra molti di più. Viene dalla periferia di Hama, in Siria.
Umm Ayada aveva un marito e sei figli. Un giorno chiede un favore: mostra delle foto sul suo cellulare e chiede se posso portarle a stampare. Sono le foto del marito e del figlio tredicenne, spariti nel nulla in Siria da ormai tre anni. Del piccolo van che doveva portarli in Libano, insieme ad altri familiari, non si è saputo più nulla.
Umm Ayada all’epoca era già in Akkar col resto della famiglia e aspettava il ritorno di alcuni parenti, tra cui il figlio e il marito, tornati in Siria per recuperare dei documenti. Mi dice che purtroppo la sparizione di interi van è una cosa che succede spesso al confine tra Siria e Libano, da quando è iniziata la rivoluzione.
Sul minibus c’erano sette persone, di cui tre ragazzi giovani, tutti dello stesso villaggio. Mostra le foto di questi uomini montate a video sul cellulare. Su un sottofondo musicale, scorrono i visi degli scomparsi con delle frasi in arabo solitamente pronunciate quando qualcuno muore martire. In realtà, però, nessuno sa se siano stati uccisi o si trovino in qualche carcere in Siria.
Deve essere difficile non sapere dove siano, vivi o morti. Umm Ayada solleva le spalle, sembra convinta che siano morti, la sua concretezza d’animo l’ha già portata a questa triste conclusione. Però a Bahia, la figlia di cinque anni, ha detto che il papà e il fratello sono in carcere, quasi a voler alimentare una speranza nascosta anche per se stessa.
Mi dice “è stato difficile, ma ora non più”. Stupisce, ma si finisce per ammirare questa donna che nonostante il dolore sembra aver accettato la perdita ed è sorprendentemente attaccata al “qui e ora”, senza rimuginare troppo su ciò che è stato.
Forse è perché non c’è più tempo per soffrire e ripensare; la vita per lei e gli altri figli continua ed è già tanta la fatica per portare avanti la famiglia. D’altronde è sola e ha altri cinque figli di cui occuparsi. Per fortuna, sono tutti abbastanza grandi per poter lavorare. A parte Bahia, che ha la stessa forza di spirito della madre, e canta canzoncine in francese da poco imparate a scuola.
Trasferisco le foto sul mio telefono ma esprimo la mia preoccupazione sulla qualità delle immagini che mi pare troppo bassa per poterle stampare. Umm Ayada non dà importanza, mi dice di stamparle pure piccole piccole, dopo tre anni di silenzio è pronta ad appendere il ricordo sul muro di plastica della sua casa.