A chi dà fastidio quella foto?

L’immagine del piccolo Aylan sulla spiaggia turca di Bodrum ha riproposto l’annoso dibattito sui limiti del diritto di cronaca. L’opinione di un fotografo e il ricordo dei casi Colasanti e Cucchi

di Valerio Nicolosi

In questa ultima parte d’estate il dramma dei barconi affondati aumenta e spesso non ci chiediamo il perché.
Da una parte la situazione nei Paesi d’origine si fa sempre più complessa, penso alla Siria e alla Libia, mentre dall’altra si approfitta della bella stagione per spingersi in mare e cercare clemenza nel tempo. I migranti, come i pescatori, aspettano la bonaccia per attraversare il Mare Nostrum, mare che mai come oggi è stato elemento di divisione e non di unione.

L’ecatombe è davanti agli occhi di tutti, i siriani scappano perché quella che doveva essere una rivoluzione interna si è rilevata un’implosione del sistema, un tutti contro tutti che danneggia soprattutto la popolazione, fino a spingerla verso il mare anche con mezzi di fortuna.

Ma c’è anche un altro dato che fa riflettere: i palestinesi per la prima volta nella storia fuggono via mare. Molti, moltissimi dei migranti che stanno attraversando il mare sono palestinesi in fuga dall’occupazione israeliana e dal suo regime d’apartheid.
In ultimo ci sono la Libia, l’Eritrea e la Somalia.

La prima naufragata nel caos dopo la “primavera” e definitivamente affondata con l’arrivo dell’ISIS, mentre gli altri due Stati africani navigano in acque torbide ormai da anni, con una guerra tra faide e lo Stato completamente assente.
Nelle ultime settimane i morti in mare non si contano più, ogni giorno arrivano le notizie di barconi affondanti con decine di dispersi fino al ritrovamento dei corpi sulla spiagge turche di qualche giorno fa e dei morti per asfissia nel tir in Austria.

Questo episodio sembra aver cambiato le carte in tavola, sembra aver aperto una discussione su tutti i livelli fin anche nell’Unione Europea, quella fortezza che si chiude in sè stessa e finanzia le missioni militari di pattugliamento e controllo delle coste e che dichiara che “l’Ungheria ha il diritto di difendere le proprie frontiere innalzando, se lo ritiene necessario, anche muri di filo spinato”.

Nel dibattito degli ultimi giorni, attivo soprattutto sui social network, molte e molti hanno lamentato la visione delle foto di quei corpi senza vita alla deriva di un mare che avrebbe dovuto portarli in salvo. E le polemiche si fanno ancora più accese quando alla deriva i corpi sono quelli di bambini, come quello di Aylan appena ritrovato sulla spiaggia turca di Bodrum.
Non sono per forza razzisti che si girano dall’altra parte e che non vogliono sapere nulla delle condizioni dei migranti, tra loro ci sono anche persone sensibili e attive socialmente e solidali con chi è costretto a scappare dal proprio Paese.

Quella foto ha segnato un punto di non ritorno, che lo si voglia o meno.
Da quando è nata la fotografia ed è stato possibile riprodurre le immagini sui giornali, quest’ultime hanno sempre aggiunto qualcosa.

La cultura fotografica centro europea prima della secondo guerra mondiale e statunitense poi, ha sempre dato grande spazio ed importanza alla narrazione per immagine come un qualcosa che può aggiungere perché, per sua natura, è più immediata delle parole, arriva a tutti e arriva subito. La fotografia è universale.
Purtroppo però per aggiungere qualcosa alla notizia le immagini devono immortalare quello che avviene nel mondo, che ci piaccia o meno.
Tra i tanti commenti ho sentito parlare soprattutto di pornografia della morte, e allora cerco di ragionare su cosa significhino queste parole.
La definizione di pornografia è:
“Raffigurazione, rappresentazione o descrizione esplicita e caricata di immagini o temi sessuali”, ovviamente qua non si parla di sesso, ma di morte e quindi parafrasando potremmo cambiare quel “sessuali” con “morte” e trovarci tutti d’accordo.
Però poi ripenso al compito e al ruolo della fotografia e in particolare del fotogiornalismo nella storia e nell’evoluzione della nostra società.
Senza tirare in ballo la famosissima foto della bambina vietnamita che scappa dalle bombe al napalm e che ha aperto una breccia nella società statunitense e dato la possibilità di capire cosa stesse succedendo davvero in Vietnam, possiamo prendere ad esempio la foto del ritrovamento di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez in quell’episodio passato alla storia come “il massacro del Circeo”.
Dopo ore di torture e massacri Donatella è viva nonostante si finga morta da tempo per scappare alla torture fisiche, sessuali e psicologiche dei suoi stupratori. Questi ultimi, quando pensano di essere soddisfatti del loro sadismo, tornano nella loro casa ai Parioli e parcheggiano la macchina come se niente fosse, pensando di avere due cadaveri nel bagagliaio.
Arriva una chiamata alla polizia, una segnalazione di “un gatto che miagola dentro una 127 in via Pola”, la segnalazione viene intercettata da Antonio Monteforte, fotografo di cronaca che scatta la foto nel momento dell’apertura del portabagagli nonostante Donatella Colasanti sia una ragazza di 19 anni che versa in pessime condizioni e che accanto a lei c’è una ragazza di 17 anni morta.
A nessuno venne in mente, come non viene in mente oggi, di dire: “quella foto non andava scattata. È pornografia della morte”.

La foto di Monteforte rappresenta un momento tragico per l’Italia e l’immagine di quel volto spaesato e impaurito ma vivo ha apportato qualcosa a quella notizia, la tragicità dell’episodio e la crudeltà degli stupratori dei Parioli.

Erano altri tempi, i giornali e i tg avevano l’esclusiva sulla circolazione delle immagini e lo spam da social network non esisteva e questo contribuiva a non trovare fastidiosa una foto come quella.
Oggi ognuno di noi attraverso facebook, twitter e blog vari può postare, condividere, esprimere la propria opinione e mostrarla agli altri, quell’esclusività delle immagini che aveva il giornalismo è caduta con tutti i suoi pro e i suoi contro.

Un altro esempio tutto italiano e più recente che ha utilizzato molto i social network per la sua diffusione sono le foto di Stefano Cucchi.

Mi ricordo benissimo la conferenza stampa al Senato in cui parlava Ilaria Cucchi, l’avvocato Anselmo e Luigi Manconi. Prima che rendessero pubbliche le foto molti pensavano a uno dei tanti casi di morte in carcere, gravissimi ma purtroppo frequenti. Quando in quella sala abbiamo visto le foto di Stefano massacrato di botte e deformato dagli ematomi qualcosa è cambiato, le foto e la loro immediatezza avevano scosso tutte le persone presenti.
Oggi siamo subissati di immagini brutte, non tecnicamente parlando, ma narrativamente parlando.

Ci fotografiamo ovunque, a tavola, in bagno, al bar, in discoteca, ogni occasione è buona per
mettere in circolo immagini che non raccontano nulla se non il vuoto di una società basata sull’immagine. L’obiettivo del nostro smartphone è rivolto sempre verso di noi, non raccontiamo il mondo ma solo quello che c’è attorno a noi se non solo noi stessi.

Quando però la foto racconta, anche se tristemente, allora gridiamo allo scandalo, ci appelliamo al buon senso e ci risentiamo se qualche amico condivide immagini che potrebbero rovinarci la giornata o ricordarci cosa accade nel mondo.
“La foto buona è quella che ti rovina la giornata” mi dice Tano d’Amico, maestro e grande persona da cui ho cercato di imparare qualcosa. E allora rifletto se queste foto mi rovinano la giornata ma soprattutto se la rovinano a chi dice:”aiutiamoli a casa loro” oppure:”chi non combatte per il proprio Paese è un vile”.
Ecco, queste sono foto buone, sono immagini che vi e mi rovinano la giornata e che politicamente lanciano un messaggio molto forte. Inoltre, aggiungono qualcosa da un punto di vista giornalistico,: mostrano quello che succede, la foto del bimbo di due anni morto sulla spiaggia vale più di 100 articoli scritti sui giornali e sulle riviste, più di migliaia di telegiornali.
Non è pornografia della morte, sono diverse dai video in cui l’ISIS taglia la testa ai giornalisti occidentali. Ecco: in quel caso possiamo parlare di sadismo e voyeurismo, del piacere che si prova a vedere quei filmati e che giustamente un canale pubblico d’informazione come Rai News ha deciso di non trasmettere più. Inoltre farebbero gioco e propaganda a chi li ha realizzati.
Non parliamo di un incidente stradale o di una persona investita da un tram di cui mostriamo il corpo. In quel caso giornalisticamente non staremmo aggiungendo nulla, perché le condizione e il corpo della persona non raccontano la sua vicenda personale, non raccontano come è arrivato ai binari del tram.

Invece i bambini morti, i corpi in mare a causa delle guerre che finanziamo e su cui lucriamo (l’Italia ha venduto nel 2014 circa 30 milioni di euro in armi nella sola regione del nord Africa) sono lì perché li abbiamo spinti noi a questo, pensando di chiuderci dentro una fortezza e ricordandoci poco della storia e di quanto poco abbiano funzionato i muri nei secoli passati.

Le foto dei bambini morti sulla spiaggia danno fastidio a coloro che non vogliono vedere ciò che accade, a coloro che pensano che girandosi dall’altra parte passa tutto, ma in realtà sta solamente diventando complice di questo genocidio.
Il rispetto deve essere per la vita di chi è costretto ad attraversare il Mediterraneo fuggendo da guerre e non ci deve scandalizzare un corpo di un bambino morto, ma i motivi per cui è arrivato lì.

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