di Christian Elia
Un uomo, in mimetica, pulisce la sua arma. Con cura. Attorno a lui, tre bambini lo osservano. Potrebbero essere i suoi figli, oppure no. Non cambia nulla. “Andrai a sparare?”. “Si, andrò al fronte per la nostra libertà, quella di tutti, perché possiate tornare a scuola”. I bimbi gli chiedono cosa accadrà, lui li rassicura, gli chiedono di andare anche loro a ‘uccidere’, lui gli dice no, “dovete tornare a scuola, studiare, diventare insegnanti, medici, ingegneri”.
Monte Sinjar, Iraq, a due passi dal fronte. Dicembre 2014: le milizie di Daesh assediano l’altura che ha offerto riparo a migliaia di famiglie, per lo più yazidi, ma non solo. Convertirsi o morire.
Surrounded by Isis, documentario di Xavier Muntz, prodotto da Premières Lignes, network di documentaristi nato in Francia che sempre più si sta ritagliando uno spazio con l’informazione dalla linea del fronte in giro per il mondo, ha vinto con merito la sezione VideoReporting dei DIG Award.
Un documentario, di sicuro, importante. Per l’approccio narrativo, che rilancia un metodo di informare, quello della vicinanza agli eventi, della prossimità coi protagonisti. Metodo che, per costi, per rischi e per scelta, è sempre meno praticato. E’ importante perché è fatto bene. La qualità, e i contenuti, assieme, sono un cifra importante.
Come sempre, però, è il contenuto che conta. Davvero importante avere la percezione della situazione in un quadrante di mondo chiave. Una narrazione che gli yazidi e i curdi hanno di sé e del conflitto in corso. La loro percezione di questa lotta come un momento decisivo per la lo loro storia: vita o morte. E con il passato duro che un presente drammatico potrebbe annunciare un futuro radioso.
La voce fuori campo, a volte, è fin troppo didascalica. E certi passaggi sembrano, nel dovere di lasciare al lettore la libertà di farsi un’opinione, perdersi i denti. Perché la presenza di un volontario Usa e una israeliana tra i combattenti anti Isis magari andrebbe approfondita con qualche domanda in più, perché il rischio è lasciare il complottista libero di regalarsi certezze e lo spettatore senza grandi strumenti sull’argomento a corto di un’informazione chiaro.
Allo stesso modo, l’occhio della telecamera raccoglie l’auto narrazione dei curdi in maniera un po’ acritica. Perché la donna miliziana curda è un’icona, e un rapido passaggio sulla condizione femminile nella società curda, non esaurisce un tema spinoso, come quello di un’emancipazione che troppo spesso passa dall’aderire all’ideologia di un gruppo armato.
Per finire, qualche passaggio sull’unità dei curdi senza frontiere, è un po’ forzato. Barzani e il miliziano in prima linea contro Isis non son uniti come li si racconta.
Al netto di qualche passaggio che meritava un approfondimento, questo è un gran bel documentario. Perché la guerra bisogna raccontarla dal terreno, altrimenti è speculazione.
Perché vivere assediati su una montagna, con un elicottero (se non c’è vento) come unico legame con la vita, è una condizione disumana che tutti debbono conoscere.
Certo, segno di questi tempi cupi, nessuno ha potuto fare un lavoro simile sull’altra parte dle fronte. Tanti giornalisti lo farebbero volentieri, ma è palese che in questa situazione è praticamente impossibile.