di Marina Petrillo, tratto da Medium
All’inizio intendevo scrivere qualcosa sul trattamento delle immagini violente dopo l’uccisione dei due giovani giornalisti in Virginia. Ve lo ricordate? Era solo dieci giorni fa. O forse avrei dovuto scrivere qualcosa, ancora prima, sulla fotografia del neonato morto bruciato nell’incendio doloso della sua casa in Palestina. Ve lo ricordate? Era il 31 luglio.
Molti di noi se ne ricordano perché di foto così ne vedono tutti i giorni. Gli spuntano davanti mentre stanno per addormentarsi, si sovrappongono con altre quando non dovrebbero, se le vedono nel piatto mentre mangiano. Io non mi sono ancora ripresa dal video del poliziotto a Parigi che veniva freddato dagli attentatori della sede di Charlie Hebdo. Era nove mesi fa. Credo che non me lo dimenticherò per tutta la vita, come se quel giorno fossi stata per strada e lo avessi visto assassinare davanti a me.
Nella squadra con cui lavoro adesso, di queste cose parliamo molto. Sappiamo che la nostra esperienza di esposizione alle immagini violente è nuova, sperimentale. Ci teniamo d’occhio a vicenda. Stiamo cominciando a capire dove rischiamo di scivolare mentre prendiamo decisioni sulle breaking news. Sappiamo che il nostro stesso lavoro può manipolarci. Sappiamo che possiamo chiedere aiuto se ne abbiamo bisogno.
E per la nostra comunità, cerchiamo il più possibile di fare l’esercizio di descrivere le immagini a parole invece di mostrarle.
Il giorno dell’omicidio dei due giornalisti in Virginia, sono crollata molto dopo, quando ho saputo che altri 51 esseri umani erano morti soffocati nella stiva di un barcone, molto più vicino a casa mia. Di quello, naturalmente, non esistevano né video né foto, ma come tante persone, non ne avevo bisogno per immaginare.
Credo che la selezione delle notizie in base al fatto che ci siano immagini a documentarle stia spingendo, alla lunga, a una corsa in cui la barra etica si abbassa di molto e il livello di manipolazione emotiva del pubblico si alza. E’ triste sapere che il discorso informativo cambierebbe se avessimo le immagini di quasi 3.000 persone in pochi mesi che annegano e soffocano sott’acqua nel Mediterraneo. Io considero questa (anche perché comprende la guerra in Siria e la rapina delle risorse africane) l’ecatombe della mia generazione, ma mi stupisce e mi angoscia che il suo muto invisibile morire senza nomi sia una delle ragioni per cui non viene affrontato politicamente come si deve e non crea un orrore empatico insopportabile.
Continua a leggere su Medium
Nella foto sopra, la Porta di Lampedusa, dell’artista Mimmo Paladino – foto di Marina Petrillo, luglio 2015