e lo Stato non riesce a garantire un tetto a tutti.
A dare alloggio e conforto sono i cittadini e la società civile
di Anna Maria Volpe, da Bruxelles
foto di Javier Aparicio Rubio
Si respira l’umanità. Qui, nel parco Maximilian di Bruxelles, divenuto in meno di una settimana un campo d’accoglienza per i rifugiati di guerra, giunti in Belgio dopo un lungo e tormentato viaggio. L’impatto è emotivamente molto forte, per chi, come me, non ha mai visto un campo di rifugiati. Eppure, dopo qualche passo tra le tende, dopo qualche sguardo attento rivolto ai visi delle persone, il nodo alla gola si scioglie e si trasforma in sollievo, prima, e disdegno, poi. Sollievo perché ci si rende conto che la solidarietà non é solo una bella parola sbandierata al vento, usata e abusata. Disdegno perché si constata la quasi totale inazione dei poteri pubblici.
L’organizzazione del campo é stata infatti interamente gestita dalla Plateforme citoyenne de soutien aux réfugiés, un’iniziativa cittadina creatasi spontaneamente per far fronte all’emergenza e sostenuta da alcune organizzazioni non governative. Gilbert Carlson, studente in giornalismo, ne coordina le attività. La conoscenza dell’arabo ha permesso a Gilbert di creare subito una comunicazione efficace e di costituire dei gruppi di traduttori tra i rifugiati che facilitano gli scambi tra volontari e richiedenti asilo.
Ad accogliermi c’é una ragazza bionda, aria stanca ma determinata «Non dormo da due notti», mi dice mentre con passo deciso mi mostra il campo e le diverse aree.
Il campo, che sorge dinanzi all’Ufficio Stranieri, ospita più di 500 persone. Altre ne arriveranno nei prossimi giorni. Per la maggior parte si tratta di Irakeni e siriani in fuga dagli orrori delle guerra, dallo Stato islamico e da Assad. Hanno tutti trovato alloggio nelle numerose tende di cui la zona è tappezzata. I volontari distribuiscono da diversi giorni le donazioni ricevute dai cittadini, dalle autorità e dalle organizzazioni: cibo, medicine, oggetti di prima necessità e igienici, coperte e indumenti caldi per far fronte all’uggioso e freddo autunno belga ormai alle porte. E tanti giocattoli, soprattutto per i bambini che, forse, piano piano stanno ritrovando il sorriso. Ce ne sono tanti, scorrazzano per il parco e a guardarli si stenta a immaginare le difficoltà immense che hanno vissuto. E poi ci sono anche loro, immancabili, medici e infermieri giunti per prendersi cura degli abitanti del campo.
Persino una mini-scuola è stata allestita; dei professori danno lezioni a coloro che desiderano imparare un po’ di francese e fiammingo, i più piccoli disegnano. Ed è stato persino organizzato anche un torneo di calcetto, una dimensione ludica grazie alla quale anche i pensieri più neri vengono, apparentemente, messi da parte.
«Tutto è nato grazie all’iniziativa di qualche cittadino che portava cibo e bevande calde ai primi rifugiati arrivati. Poi il numero è cresciuto sempre più ed è stato necessario organizzarsi» racconta Julien, uno degli organizzatori.
«I rifugiati oggi sorridono, le cose procedono nel verso giusto e la coordinazione funziona perfettamente». Julien è indaffaratissimo, cammina velocemente tra le tende, da indicazioni, infonde coraggio. «È stato molto naturale consacrare il mio tempo, non ci ho pensato nemmeno, è stato uno slancio assolutamente spontaneo». E guardando i suoi occhi scuri e sinceri, privi di dubbio, gli si crede.
Le storie dei richiedenti asilo
Tra le storie di questo luogo, vi sono quella di Ahmed e Salih. Provenienti entrambi da Baghdad, «dove la vita di un uomo può essere lunga quanto quella di una mosca. Oggi si è vivi, tra mezz’ora non si sa». Ahmed è giunto in Belgio il 24 agosto scorso. Partito dall’Iraq, ha attraversato la Siria, poi Turchia, Grecia, Macedonia. Da qui, camminando, è arrivato in Serbia, ha pagato qualcuno che lo ha condotto in Ungheria poi Austria, Germania ed infine Belgio.
Un susseguirsi di tappe, la paura di non farcela. La sua famiglia è ancora bloccata a Budapest, laddove il governo ungherese sta mostrando il suo volto più duro e vergognoso.
Ahmed fa il graphic designer , ha avuto la sua prima intervista con le autorità pubbliche per avere lo status di rifugiato. Dice che è andata bene. Spera di poter stare qui e trovare un lavoro. Stessa rotta, stesse difficoltà per Salih, giovane ingegnere, anche lui in attesa di un pezzo di carta che significa libertà, che significa sicurezza, che significa futuro.
La reazione del governo
Intanto, il primo ministro Charles Michel ha affermato la volontà di lavorare a stretto contatto con la società civile nella gestione di questa emergenza.
Un edificio vicino all’Ufficio Stranieri che può accogliere 500 persone dovrebbe essere disponibile a giorni. Delle negoziazioni tra il comune di Bruxelles, le Croce Rossa e i pompieri sono in corso per gestire al meglio gli spazi forniti di docce e letti.
L’Ufficio Stranieri riesce a registrare 250 candidature e domande allo statuto di rifugiato al giorno.
Una task force è stata creata per monitorare costantemente la situazione. Altre misure saranno tuttavia necessarie nei prossimi giorni: altro personale sarà assunto per far fronte alle richieste e alla burocrazia crescente. Nell’attesa che questo accada, è sicuramente la società civile a mettere in mostra il lato più solidale e caloroso di Bruxelles.