di Angelo Miotto e Christian Elia
Il gesto politico – non viscerale ma sicuramente e legittimamente calcolato – della zarina d’Europa che apre frontiere, stanzia miliardi, una marcia via terra che è una foto che coinvolge in maniera diversa di quei tratti di mare che non vediamo, se non nei tragici epiloghi di corpi che galleggiano e sbattono sulle coste, la foto del bambino sulla spiaggia.
Ce ne sono mille altre, di immagini. Eppure la diffidenza è un sentimento difficile da scacciare in questa veloce analisi di rapporti di forza, fra la fortezza Europa e il resto del mondo che cerca di cambiare in meglio la propria vita. Scappando, viaggiando su mezzi di fortuna o meno, giocandosi il tutto per tutto.
Diffidenza legittima, perché per decenni le politiche dei singoli stati e dell’Unione europea sono state e sono ancora legate al concetto di difesa, dove l’elettorato interno conta di più a fini di governo e potere dell’umana compassione.
Adesso questo muro pare vacillare, una breccia ma diciamo ancora forse, perché l’ansia di vedere cambiare le cose in meglio non è buona consigliera se non riceverà conferme nel breve e nel medio periodo.
Un muro che pare vacillare solo per i siriani, e anche per loro solo adesso, dopo un massacro lungo quattro anni, ma che resta saldo e forte per tutti gli altri in fuga dalla guerra, o per quelli che vengono chiamati migranti economici. Come se ad annegare o a essere brutalizzati non ci siano anche i perseguitati politici, quelli che subiscono torture per la loro fede o per il loro orientamento sessuale.
Ciò, però, non deve essere un limite alla soddisfazione di vedere il cambiamento in atto e anche le piccole grandi vittorie del momento presente hanno un sapore e sono stimolo per trasformarle in avamposti di battaglia politica.
Cerchiamo con crescente fretta di capire se vi sia una soluzione giuridica, un corpus di misure che possa fissare anche sulle carte dei burocrati e dei regolamenti questi nuovi segnali. E stupisce, in positivo, anche l’appello di tanti giornali del mainstream che si rivolgono all’Europa in un gesto di cui non ricordo precedenti per chiedere accoglienza e regole certe e sicure per iniziare un percorso strutturale.
Un cambiamento semantico, di linguaggio e di senso. Da giorni trionfa il ‘bene’, il gesto affettuoso, e viene giustamente vessato il gesto crudele, violento. Pensateci: sta accadendo solo adesso? Prima c’erano migliaia di cittadini, ovunque, che lottavano contro un sistema assurdo per dare ospitalità, rifugio, aiuto. Solo che non li raccontava nessuno. E oggi, allo stesso modo, non sono spariti i predicatori dell’odio che hanno fomentato il razzismo. Solo che è cambiata la narrazione.
Abbiamo guardato così spesso dentro gli antri mefitici delle destre xenofobe, nelle latrine da cui sono usciti oscuri personaggi, che oggi ci si deve domandare – una volta di più sui grandi giornali che si schierano con l’appello – se non si sia dato troppo spazio e megafono a messaggi sbagliati, se la cronaca – doverosa – non abbia gonfiato personalità inconsistenti, favorendo epidemie contagiose di populismo razzista. Mettere nei titoli sullo stesso piano le parole del papa, capo della cristianità, e quelle di rozzi personaggi che invocano ruspe, per esempio.
Diffidenza non ragionata, ma naturale nel cercare di capire come tutto di un colpo si sia risvegliata nelle aule ordinate e fra cravatte e tailleur un senso di attenzione all’uomo. E la memoria recentissima che però non può dimenticare come le regole e le ideologie della finanza e della politica che le obbedisce condannino – anche sui giornali che oggi si schierano – popoli interi a subire la voce del più forte, l’assenza di democrazia, la perdita di dignità.
Una realtà inevitabilmente complessa, sempre più complessa, dove anche le immagini e le reazioni sociali hanno un peso forte e dove si fa fatica ad applicare coerenza, ma si reagisce su singole emergenze come se non fossero legate alla condizione umana, con gradazioni evidenti di differente drammaticità. Ma l’uomo al centro, come nel caso di questi appelli e decisioni umanitarie, non può essere una ricetta settoriale, deve essere un minimo denominatore comune che vale per i disperati che fuggono la guerra e la povertà e per ogni singolo uomo nel rispetto di regole su piani molto meno drammatici, dove vita e morte non sono alternative immediate, ma dove l’umiliazione e il togliere dignità provoca tragici epiloghi, nei corpi e nelle coscienze.
E la speranza, per legittima diffidenza, è che non sia un modo per preparare le opinioni pubbliche a un intervento militare.
Perché la Libia, l’Afghanistan e l’Iraq, da quindici anni a questa parte, ci dimostrano come le bombe non portano la pace. A questo cambio di narrazione, va affiancato un cambio di passo della politica internazionale. I profughi non ci saranno più solo quando si combatterà la guerra, un’economia dell’ingiustizia, le disuguaglianze del mondo.
Ojalà. È una parola araba che vive nello spagnolo. Magari, che sia, speranza, possibilità. A noi tocca lavorare su questi inaspettati avamposti, comunque siano arrivati, ma con il difficile compito di essere contenti per singole cose e non perdere di vista il contesto, con la soddisfazione di vedere che finalmente qualcosa accade, ma non pensare di aver convinto o vinto e con serenità di giudizio nel comprendere entro quale sistema economico e finanziario e di rapporti globali (anche di conflitto) tutto questo stia avvenendo.
Si resta all’erta non per pessimismo o per un’abitudine a non godere delle buone notizie.
Si resta all’erta perché il cammino è ancora, ancora, lungo.