di Giulia Bondi, tratto da Redattore Sociale
«Il caporalato esiste da cent’anni perché è un sistema che funziona. E pertanto va sconfitto proponendo un sistema che sia giusto e legale, ma altrettanto efficiente. Che sia flessibile, come serve agli agricoltori, ma senza sfruttamento e senza precarietà». Va diritto al punto Giulia Anita Bari, che per l’organizzazione non governativa Medici per i diritti umani (Medu) coordina il progetto Terragiusta: operatori sanitari e unità mobili sui principali luoghi in cui sono presenti braccianti agricoli stagionali nel Centro e Sud Italia. Il Vulture in Basilicata, la piana di Gioia Tauro in Calabria, l’Agro Pontino nel Lazio e la piana del Sele in Campania, più un progetto di monitoraggio nella Capitanata, in provincia di Foggia.
I sindacati hanno discusso con l’Inps la proposta normativa messa a punto per combattere il caporalato, poi presentata al governo: dalla comunicazione preventiva delle giornate di lavoro al salario minimo, dalla defiscalizzazione dei contratti a tempo indeterminato, anche part time, alle sanzioni per chi utilizza lavoro nero o ricorre ai caporali. E dal primo settembre, sul sito dell’Inps, le aziende possono iscriversi alla rete del lavoro agricolo di qualità, sulla quale però la Flai-Cgil ha già espresso riserve, affermando che i requisiti indicati non bastano per tenere fuori le aziende che sfruttano. Il rischio è che proposte normative o azioni nascano senza tenere in considerazione il parere e le analisi di chi lavora sul campo.
«Abbiamo monitorato, con due visite a fine agosto, i due centri d’accoglienza di Palazzo San Gervasio e di Venosa, creati dalla task force della Regione Basilicata e affidati direttamente in gestione alla Croce Rossa, per superare i ghetti e gli insediamenti informali in cui vivono i braccianti agricoli nella zona del Vulture», racconta Giulia Anita Bari.
«Nel primo abbiamo trovato circa settanta persone, e nel secondo una ventina». Una minima parte, quindi, dei lavoratori agricoli stagionali extracomunitari della Basilicata, che secondo le stime dell’Inps (basate sul solo lavoro regolare) superavano già nel 2011 le duemila unità. «I lavoratori non vanno a vivere nelle tendopoli o nei centri d’accoglienza regolari. Ma questo non perché siano obbligati dai caporali a stare nei casolari abbandonati. Non ci vanno perché questi centri non sono attrezzati alle loro necessità di lavoro», spiega Giulia Anita Bari.
Quello che manca ai centri di accoglienza è, per esempio, la possibilità di trasporto dal luogo in cui si vive ai campi in cui si lavora. «Nei ghetti, per quanto illegali, c’è la logistica che serve ai lavoratori e alle imprese: caporali che sono in grado di organizzare squadre di lavoro e portarle direttamente sul campo – prosegue Bari -. Sappiamo di lavoratori che nel giro di una settimana hanno lasciato il centro d’accoglienza perché lì non trovavano lavoro. Non basta dire che si vogliono superare le condizioni invivibili dei ghetti. Se il caporalato esiste da 100 anni, vuole dire che funziona. Che risponde alle esigenze del settore. E quindi va riprodotto in maniera legale».
Un’organizzazione non semplice, ma che richiederebbe la presenza, proprio all’interno delle tendopoli che dovrebbero andare a sostituire i ghetti, di operatori dei centri per l’impiego, che si sostituissero fisicamente ai caporali e fossero in grado di organizzare anche i trasporti.
«In agricoltura ci sono mille variabili: un giorno piove, un giorno è urgente raccogliere. È difficile immaginare che, nei momenti di punta, i lavoratori e i datori di lavoro facciano davvero riferimento alle liste disponibili nei centri per l’impiego nei capoluoghi. Se, invece, gli sportelli per la regolarizzazione dei lavoratori fossero presenti direttamente nei luoghi dove loro vivono, potrebbero davvero essere competitivi rispetto al ‘servizio’, illegale ma efficiente, offerto dai caporali. Così, il datore di lavoro potrebbe presentarsi, prenotare le squadre per i giorni successivi, e sulla base delle esigenze si organizzerebbe anche il trasporto. In modo legale, ma flessibile», conclude Giulia Anita Bari.
Anche per quanto riguarda le soluzioni abitative per i braccianti stagionali, l’idea è costruire centri di accoglienza che alla garanzia di condizioni igienico-sanitarie accettabili possano affiancare la flessibilità e le reti sociali che caratterizzano ghetti e insediamenti informali.
«Nei centri di accoglienza esistenti i braccianti dormono gratuitamente su brandine, hanno le docce e alcuni fornelli per cucinare, anche se in numero insufficiente e senza frigoriferi», spiega Giulia Anita Bari.
I problemi sono riconducibili alla distanza dai centri abitati: «Il centro di San Gervasio è abbastanza vicino all’abitato, ma quello di Venosa si trova a circa 7 km dal paese, di strada tortuosa e in salita, collegato con solo tre corse di autobus che finiscono nel primo pomeriggio, e quindi completamente isolato negli orari in cui i braccianti rientrano dal lavoro. Inoltre, i centri sono luoghi chiusi, dove per ragioni di sicurezza bisogna chiedere il permesso per entrare e uscire».
La differenza con i ghetti informali è che in questi ultimi, almeno nei più grandi, si sviluppano reti di solidarietà e sistemi economici paralleli, che forniscono i servizi di cui i braccianti possono avere bisogno. «Per essere appetibili per i lavoratori, i centri di accoglienza stagionali dovrebbero almeno essere aperti anche alle attività delle associazioni presenti sul territorio. Ci si dovrebbero poter trovare servizi di consulenza sui contratti, assistenza sanitaria, spazi di incontro», conclude Giulia Anita Bari. La stagione della raccolta del pomodoro si conclude circa nella prima metà di settembre. Ma il lavoro dei braccianti alloggiati nei ghetti continua: dalla vendemmia alle olive, fino a spostarsi nella piana di Gioia Tauro per mandarini e arance.