e non persone, quando rientrano nel novero della serialità
del conto. Il numero non genera orrore, ma assuefazione.
di Massimo Conte
Codici | Agenzia di ricerche sociali
L’immagine del corpo senza vita del piccolo Aylan ha scosso molte coscienze. Lo stesso hanno fatto le immagini provenienti dall’Ungheria. Una grande ondata emotiva e una grande ondata d’impegno. Le immagini delle auto che portavano le persone fino in Austria, delle persone in Germania in attesa dei treni per accogliere i rifugiati in arrivo, ci hanno raccontato di una passione e di un’umanità che, per esempio, Milano sta mettendo in campo da mesi. Una passione e un’umanità che mi fanno ben sperare sulla possibilità che nelle nostre società ci siano anticorpi sufficienti a contrastare l’ondata fascistoide e xenofoba che le sta attraversando. Prendersi cura del proprio fratello e della propria sorella in viaggio mi sembra un bellissimo modo di essere umani.
Quando queste emozioni diventano strumento nelle mani dei teatranti della politica e dei media divento, invece, sospettoso.
Angela Merkel ha vissuto una strana parabola nel corso delle recenti settimane. A lungo è stata l’icona della cattiveria: è quella che fa piangere una bambina in televisione, è quella che gioca a braccio di ferro con il povero Tsipras. All’improvviso, è diventata icona dell’accoglienza e dell’apertura verso i profughi siriani. La notizia di queste ore è che è stata accolta da applausi e richiesta di foto ricordo al suo ingresso nell’Ufficio federale per la migrazione e i rifugiati di Berlino.
Non sono in grado di fare grandi ragionamenti geopolitici, mi mancano le basi e la propensione alla lettura un po’ complottista che spesso si portano dietro. Non so, quindi, quanto questa nuova disponibilità sia frutto di calcoli strategici sull’asse internazionale e quanto stia preparando, per esempio, il terreno per un intervento militare in Siria.
Contemporaneamente, sono molto scettico sulla politica istituzionale e non sono in grado di fare ragionamenti su come e se questo orientamento della Merkel corrisponderà a un’azione congiunta dell’Europa e farà da apripista a una nuova politica europea sull’asilo. Vorrei fare, invece, una riflessione sull’uso delle emozioni.
Emozioni che nascono, anche, perché oggi, forse per la prima volta in modo così evidente, le vittime hanno un nome, un volto e una storia. Il padre con il bambino in braccio che la fascista ungherese fa cadere mentre riprende la scena hanno un nome e un cognome. Sappiamo che sono Osama Abdul Mohsen e il suo piccolo Zaid, di sette anni. Sappiamo che il papà è un allenatore di calcio, sappiamo che l’ultimo post che ha pubblicato sul suo profilo Facebook è una foto della sua squadra di calcio con il titolo Speranza! Così come abbiamo visto le foto del piccolo Aylan felice, abbracciato a suo fratello e a un peluche bianco, abbiamo avuto modo di vedere la sua casa e di sentir parlare suo padre.
Le vittime sono umanizzate e questo alza il tono emotivo intorno alle loro vicende. Non hanno lo stesso potere quando sono deumanizzate, quando sono corpi senza nome e non persone, quando rientrano nel novero della serialità del conto. Il numero non genera orrore, ma assuefazione. Il numero ci rende impotenti quanto la storia ci scuote e ci spinge all’azione. Nel mondo globalizzato e sovraesposto in cui siamo le cose funzionano così. Le storie contano, la capacità di costruire una narrazione potente conta. Non è un caso che tutti i regimi prima di mettere in atto genocidi abbiamo avuto bisogno di deumanizzare e spersonalizzare le proprie vittime. La stella gialla ha preceduto i campi di sterminio e ne è stata una necessaria preparazione.
Media e istituzioni politiche sono fortemente orientate a parlare un linguaggio emotivo, generando e rinforzando un analogo sommovimento emotivo nel proprio pubblico. Come attori consumati sanno che bisogna dare al pubblico ciò di cui il pubblico ha bisogno per identificarsi con loro. Perché c’è un problema di costruzione del consenso e del suo mantenimento. Intenzionalmente non uso il termine lettore o il termine elettore. Mi pare, infatti, che tutte queste emozioni in circolo abbiano la grande utilità di rimuovere la riflessione e il pensiero critico.
L’uso politico delle emozioni, per esempio, consente di rimuovere le responsabilità e di cancellare la catena degli eventi. Gli stessi governanti che sono stati parte del problema fino a ieri e che ancora oggi continuano ad alimentare le politiche devastanti che hanno contribuito a destabilizzare larghe parti del nostro pianeta possono presentarsi come parte della soluzione.
L’accoglienza, la disponibilità ad aprire le proprie porte, il sorriso con cui si posa nelle foto ricordo: sono tutti elementi che spingono a dimenticare le responsabilità dei governi europei nelle crisi con cui ci stiamo confrontando. Come, domani, saranno elementi che spingeranno a subire il ricatto di iniziative e provvedimenti che, con il pretesto di mettere mano allo scandalo, porranno sostanzialmente mano all’ulteriore costruzione delle frontiere europee.
L’uso politico delle emozioni offre una base per dividere e separare le vittime. Accogliamo i siriani, apriamo le nostre case per accogliere il loro dolore, illuminiamo questa scena e questi umanissimi gesti sono usati nella logica del potere per mettere in ombra il resto. Sono messi in ombra la tragedia del popolo curdo, sono messi in ombra la fuga di uomini e donne dall’Eritrea, è messo in ombra tutto il resto. Quanti saranno alla fine gli Stati che avranno accolto le vittime della guerra in Siria e ignorato o respinto le altre vittime. Si sancisce la distinzione tra rifugiato e migrante economico. Dividere, separare.
La solidarietà del potere è selettiva e nella sua selettività c’è tutta la violenza del potere.
Perché la salvezza dei pochi è gemella della condanna dei tanti altri che non sono come i pochi. Anzi, il rischio è che la salvezza dei pochi rafforzi l’esclusione e la condanna degli altri. Anche nella percezione comune e diffusa. Nei tram o nelle metropolitane sembrano andare di pari passo il dolore per chi rompe il muro della notizia e il risentimento nei confronti degli altri.
È sempre all’opera la retorica dei buoni, siano direttori di giornali o governanti. Quella di cui diffidare e da cui prendere le distanze. Quella che porta a piangere senza assumersi la responsabilità di quello che si è contribuito a costruire.
Oggi questa retorica usa l’etichetta rifugiato. Le etichette hanno questo potere: distinguono. Se qualcuno è rifugiato, qualcun altro non lo è. Ma le etichette hanno anche il potere di produrre effetti pratici: se sei rifugiato siriano ti accolgo, se non lo sei non ti accolgo. Ti respingo. A pensarci bene le etichette usate come confini differenziano, usate come frontiere separano.