di Valerio Nicolosi
tratto da Associazione Film Maker
A 15 anni dalla rivoluzione digitale della fotografia e successivamente del video che hanno dato nuova vita al mondo delle immagini, ci ritroviamo sempre più spesso ad interrogarci sul ruolo che queste svolgono nella società, soffermandoci soprattutto sul loro utilizzo.
La foto del piccolo Aylan ha fatto il giro del mondo, che lo si voglia o meno, ha creato una discussione a livello internazionale sul tema dei migranti che fuggono da guerre e povertà. Molti giornali hanno deciso di pubblicarla, altri no, ma il ruolo vero nella diffusione l’hanno giocata i social network con milioni di condivisioni e commenti personali che apparivano nei post di ogni singola bacheca.
E sono proprio i social network ad aver cambiato radicalmente il mondo dell’informazione, abbattendo ogni barriera etica sulla diffusione di fotografie e video. Che ci piaccia o meno, tutti vediamo apparire sull’home page di Facebook o di Twitter immagini dell’ISIS che decapita un giornalista o di un bambino morto. I social danno la possibilità ad ognuno di esprimere la propria opinione come se fossimo tutti degli editorialisti ed esperti della notizia di turno.
Anche l’utilizzo delle immagini non fa eccezione. Da persone morte per denunciare i crimini di una guerra al selfie davanti allo secchio del bagno il passo è breve, ognuno comunica a modo suo e senza una soluzione di continuità.
Da professionisti dell’informazione e del mondo audiovisuale però dobbiamo ragionare sull’opportunità di realizzare video o foto in condizioni critiche o comunque poco usuali e lo abbiamo fatto con Marco Geppetti, fotografo e socio della Marcello Geppetti Media Company che porta avanti il lavoro di uno dei fotografi italiani più importanti del ‘900, valorizzando il suo archivio.
“Mio padre è stato uno dei paparazzi che rese celebre la dolce vita ma non si limitava solo a fotografare le stelle del cinema, fece anche cronaca e gli capitò di fare anche la nera. Era il 1959, a Roma iniziava quel clima di libertà e frivolezza che vide grandi star italiane e straniere popolare Via Veneto ancor più degli studi di Cinecittà. Proprio a due passi dalla celebre via la sera del 21 giugno prese fuoco l’hotel Ambasciatori. Il caso volle che Marcello si trovasse a pochi metri di distanza dall’hotel, precisamente all’angolo tra via Liguria e via Emilia poco distante da due poliziotti che pattugliavano la zona. Marcello stava cercando qualche star da fotografare ma all’improvviso sentì delle urla che lo allarmarono e corse verso l’incendio”.
L’hotel Ambasciatori prese fuoco e in quel rogo morirono 3 ragazze che lavoravano presso l’hotel.
Il dettaglio del racconto lo estrapoliamo da un’intervista che fece un settimanale dell’epoca proprio a Marcello Geppetti, a pochi giorni dall’accaduto.
“Dalla finestra dell’albergo, al quinto piano, si vedeva uscire del fumo, e delle donne gridavano.
Siamo corsi dentro il “Pipistrello” (un locale la vicino ndr) per chiamare un funzionario di pubblica sicurezza che ha subito telefonato ai pompieri. Saranno state le quattro e qualche minuto. Poi siamo tornati subito indietro. Intanto si erano uniti a noi anche un autista di taxi e altre due persone. Da sotto abbiamo gridato alle donne di star calme, avevamo chiamato i pompieri, dovevano di resistere.
Avevo la macchina fotografia in mano, l’ho posata in terra e con due agenti, un funzionario di PS e altre due persone abbiamo cercato di abbattere il portoncino di servizio, ma inutilmente.
Dalla gente era affacciata alle finestre dell’albergo, ma nessuno reagiva, nessuna faceva nulla, i pompieri non arrivavano. Ho visto salire sul davanzale la prima donna, quella che si è salvata. Allora sono corso a prendere la macchina fotografica. La prima donna si è lasciata calare reggendosi al bancone: una sua compagna le reggeva le mani. Avrei voluto fare la fotografia, ma temendo che il flash potesse spaventara mi sono trattenuto. Appena si è lasciata andare, ho scattato la foto. Ho fatto dodici fotografie. Avrei potuto farne molte di più, cambiare il rullo della macchina fotografica, ma non me la sono sentita”.
In poche ore quelle foto fanno il giro del mondo, il brutto incidente avvenuto alle lavoratrici colpisce molto, grazie soprattutto alle foto di Geppetti. Alcuni giornali però attaccano il fotografo e lo etichettano come un mostro cinico e spietato che pensa solo ai soldi. La risposta la troviamo sempre nella stessa intervista:
“Io non mi sono reso conto che stavo facendo un servizio fotografico di eccezionale interesse, l’ho capito solo il giorno dopo; quindi non è vero che sarei passato sopra a qualsiasi sentimento per avidità e denaro. Ho agito in buona fede. Ho fatto le fotografie automaticamente, come fa ogni persona che fa il fotografo professionista altrimenti non esisterebbero tante fotografie di eventi drammatici o di guerra. Ero spaventatissimo, sono stato male per due giorni, per due giorni non ho mangiato.”
Il punto focale della discussione sta proprio in questo passaggio: “come fa ogni fotografo professionista, altrimenti non esisterebbero tante fotografie di eventi drammatici o di guerra”.
Geppetti di cosa è colpevole? Di aver fotografato e quindi raccontato quello che poi l’Italia conoscerà come “l’incendio dell’hotel Ambasciatori”? Dopo aver cercato di aprire il portoncino di servizio e aver chiamato i pompieri che altro poteva fare?
“Nel 1959 l’Italia era un paese ancora molto bigotto – ci dice Marco – attaccarono mio padre anche perché nelle foto si vedevano le donne senza indumenti intimi. Il più duro di tutti fu L’Osservatore Romano, che dedicò un editoriale in cui lo definiva un mostro cinico ma Marcello non era così”.
L’incendio dell’Ambasciatori ricorda lontanamente quello che è accaduto alle Torri Gemelle di New York quando le persone, braccate dalla fiamme nei piani alti, dovettero scegliere se morire bruciate o gettarsi dalla finestra. Anche in quel caso furono realizzate delle immagini di vittime che si lanciavano e anche in quel caso contribuirono a creare un immaginario solidale con le vittime.
Se cerchiamo nella storia, da sempre le immagini sono testimoni della realtà. Il primo grande evento drammatico raccontato con le immagini in “presa diretta” fu la guerra civile di Spagna. Le attrezzature fotografiche consentivano di spostarsi senza troppi pesi e soprattutto le macchina fotografiche consentivano di fare foto con tempi di posa veloci.
La fotografia “Morte di un miliziano” di Robert Capa è la foto simbolo di questo cambiamento storico nella narrazione delle situazioni critiche. Da allora le immagini sono stati sempre elementi di sensibilizzazione e diffusione del dolore ma soprattutto hanno sempre aiutato a costruire un immaginario nella società. Il problema quindi non sono le immagini che vediamo ma in se ma l’utilizzo che se ne fa, l’immaginario che scegliamo di costruire. Quella di Capa è il simbolo della guerra civile spagnola, ma le tantissime foto che furono scattate aiutarono a far capire la ferocia dell’esercito spagnolo golpista e a scatenare un sentimento di solidarietà nei confronti dei repubblicani.
Le immagini raccontano un evento e non sono mai neutrali, non possono esserlo per natura perché quello che riprendiamo è solo una parte di quello che accade, è il “focus dell’immagine” per dirla con le parole di Walter Benjamin su cui si concentra il filmaker o il fotografo. L’obiettivo da una visione limitata che implicitamente deve far scegliere una porzione di campo piuttosto che un’altra. Il filmaker o il fotografo fanno delle scelte e queste scelte sono quelle che incideranno sulla narrazione. Come ci dice Silvia Leonzi ne “Lo spettacolo dell’immaginario”: “i media storicamente sono vere e proprie categorie interpretative capaci di offrire modalità di riduzione della complessità adatte alle differenti fasi dell’esperienza e della conoscenza, anche rispetto all’evoluzione di una realtà sempre più articolata e difficile da interpretare”, quindi hanno funzione di sintetizzare e interpretare la realtà rendendola più facilmente assimilabile, sia attraverso le parole che attraverso le immagini. Ognuno di noi, parlo dei professionisti, è un media e a suo modo racconta quello che lo circonda anche quando gli episodi sono drammatici e umanamente fanno male.
Da anni muoiono persone in mare, il Mediterraneo è un cimitero e i pescatori di tutte le sponde possono raccontarlo fin troppo bene. La foto di Aylan è arrivata in un momento in cui l’Europa era già sotto accusa per essersi chiusa dentro le proprie mura proprio mentre da est e da sud arrivavano migliaia di persone che chiedevano una vita dignitosa. Quindi l’immagine del bambino sommata a quelle del confine ungherese e quello macedone hanno contribuito a creare solidarietà nei confronti dei migranti. Senza quelle immagini sarebbe stata più difficile perché per loro natura sono dirette e sono un linguaggio universale che va oltre ogni lingua.
Accusare Geppetti di aver fotografato donne che si gettavano dalla finestra per fuggire all’incendio non ha senso, perchè Geppetti no e Capa sì? Non si tratta di essere spietati ma di fare un mestiere che racconta e che arriva in modo molto diretto delle parole perchè usa un linguaggio universale. Se noi conosciamo i grandi e piccoli eventi della storia, se ne abbiamo memoria è grazie a chi ha girato e scattato quelle immagini spesso rischiando la vita o semplicemente mettendo da parte i propri sentimenti in quel momento e facendo il proprio lavoro.
“Mio padre raccontava poco e mal volentieri di quella notte drammatica, dopo aver fotografato è stato male e per anni si è portato dietro il dolore di veder morire davanti a lui delle persone senza poter far nulla” chiosa Marco Geppetti.